Il tempo dei sanatori ad Arco
Beatrice Carmellini (con la collaborazione di Sara Maino), Il tempo dei sanatori ad Arco (1945-1975), Trento, Museo storico in Trento, 2005, pp. 358, 20.
Arco: dopo il periodo luminoso del Kurort, la cittadina divenne, un po’ per vocazione (il famoso microclima) e un po’ per scelta, uno dei maggiori centri sanatoriali d’Italia per la cura della tubercolosi. Nel secondo dopoguerra gli ammalati presenti ad Arco si aggiravano intorno alle tremila unità e le case di cura arrivarono al numero di trentaquattro. Il boom sanatoriale finì per connotare la cittadina e divenne fonte di reddito, risorsa occupazionale: “Dopo la guerra è ricominciata la storia dei sanatori e dunque lavoro per molti: in cucina, ai piani, alle pulizie, alla manutenzione - il riscaldamento era a carbone e quindi c’era tutta la manutenzione -, i giardini, la parte medica, infermieristica, centinaia di medici. Nonostante la malinconia c’era un relativo benessere dato dall’industria del bacillo”.
Sto riprendendo dati e testimonianze dal volume di Beatrice Carmellini (con la collaborazione di Sara Maino), Il tempo dei sanatori ad Arco (1945-1975), dato alle stampe un anno fa, ma che solo ora, dopo la segnalazione avuta all’ultimo Premio Itas per i libri di montagna e dopo aver vinto qua e là alcuni premi, gode di un certo riconoscimento pubblico. Del pubblico del lettori comuni, intendo.
Il libro, in massima parte, si regge su una documentazione orale: sulle storie personali di alcuni testimoni privilegiati che hanno vissuto dentro e fuori i sanatori (medici, infermieri, operai, custodi, impiegati, degenti, proprietari di case di cura, amministratori comunali, commercianti, baristi, gente comune). L’oggetto di studio è la rimemorazione della loro esperienza soggettiva: com’era Arco al tempo dei sanatori? Com’era dentro? Com’era fuori?
Durante la lettura ho redatto un indice del tutto personale dei temi che sembrano tornare con una certa insistenza nelle interviste e che formano il tessuto narrativo del volume (oltre a dar consistenza ad una vera e propria memoria collettiva). Eccolo.
1. Rappresentazioni peggiorative di Arco nel periodo dei sanatori sono riassunte in alcuni blasoni popolari: “la sputacchiera d’Italia”, “Arco città degli olivi, donne putane e omeni cativi”; “Arco bisèra” (città delle biscie). Sono appunto blasoni, etichette denigratorie che entrano nel senso comune e rimangono nella memoria diffusa, e che rimandano alla presenza inquietante della malattia contagiosa, alle insidie nascoste nel contatto, al pericolo fisico e morale della promiscuità sessuale.
2. Sono storie di confini invisibili alimentate dalla percezione dell’esistenza di due collettività distinte (formate dagli autoctoni e dai forestieri, dai sani e dai malati) che coabitano disegnando spazi propri, dandosi proprie regole di comportamento. (“Immagino scene di vita - scrive l’antropologo Pietro Clemente nella prefazione - che ricordano manierati film d’epoca, gente nei giardini, gente nei bar, ma anche i bambini imparano a capire subito che confini invisibili separano i sani dai malati, i pericolosi dagli innocui, e questi confini diventano confini morali”).
Sì, certo il bar “luogo elettivo della socialità” diventa la più temibile zona di confine, dove è facile lo sconfinamento, il contatto, il contagio (“Sembra una cosa assurda adesso, razzista… Nei bar c’erano le tazzine degli ammalati… le tazzine poi andavano a finire nel medesimo pentolone dove si lavava e non si lavava, perché l’igiene era quella che era”). Il bar è spesso anche la meta delle fughe degli ammalati e il luogo della vita sotterranea e clandestina dei degenti.
3. Ritorna il tema della paura. Paura di vivere ad Arco, di passare per Arco. La paura degli adulti per i propri bambini: “Eh, sì la paura c’era. Ricordo benissimo le raccomandazioni sul fazzoletto davanti alla bocca, sul non toccare in terra, i sospetti, le reprimende sulle frequentazioni, l’ascolto dei tipi di tosse”.
4. Poi ci sono le storie del lavoro: i sanatori (causa della paura) costituiscono al tempo stesso, come si diceva, una importante risorsa occupazionale. A beneficiarne sono soprattutto le donne, che escono dalla famiglia e che intraprendono attraverso il lavoro un loro processo di emancipazione e di autonomia. Questo è un tema particolarmente caro alle autrici del libro e si intreccia inevitabilmente (è un dato storico) con la diffidenza maschile per la loro “esposizione pubblica” che finisce per comportare anche un “rischio morale”, come si esprime un testimone. “E per rischio morale intendo quella commistione di uomini e donne, forse più libere o economicamente in via di emancipazione che ha lasciato comunque un retaggio anche di figli illegittimi, matrimoni, fughe, corna”.
5. Così, questa memoria collettiva denuncia dentro e fuori i sanatori “un problema sessuale per Arco”, legato da un lato alla prepotente sessualità maschile dei degenti e dall’altra ad una del tutta nuova disponibilità femminile (“le ragazze ci cascavano”). Ecco allora le storie d’amore (dentro e fuori), gli incontri clandestini, le relazioni frettolose o durature, i matrimoni.
Ai temi, alle storie di confine che riguardano i rapporti della popolazione di Arco con i sanatori (e dei malati con i cittadini di Arco: che cos’è questo elenco sommario se non la storia di come è stata vissuta la presenza dei sanatori dentro la città?), si aggiungono, in un secondo elenco, le storie dei malati, di chi vive per un certo periodo dentro l’istituzione.
1. E qui trovo la miseria e la desolazione del dopoguerra, con le storie dei tanti soldati che tornano ammalati dai campi di prigionia. E più in generale si affaccia la povertà degli anni Quaranta e Cinquanta, quando la TBC assume i contorni di una malattia sociale; e dentro questo quadro addolorano particolarmente le storie dei bambini poveri, abbandonati per anni nei sanatori.
2. E poi, dentro, troviamo i tempi, i luoghi, i comportamenti, le relazioni tipiche di una istituzione totale: all’ingresso (il primo giorno) l’acuta sensazione di una frattura sociale; poi un senso di fallimento personale (nel caso specifico il senso di colpa per essere contagiosi); più avanti l’esigenza di riempire (o di uccidere pietosamente) il tempo: la musica, la televisione, il cinema; i dibattiti, il concerto lirico; i luoghi di ritrovo, i giornalini, la festa di carnevale; i lavori femminili e maschili. Tutte attività di rimozione (per usare la definizione di Goffman) di un tempo messo tra parentesi, sentito come impersonale, non proprio.
3. Ho trovato di grande interesse il paragrafo dedicato all’impegno educativo del sanatorio (ma userei più volentieri la definizione di strategia educativa diretta ed indiretta, perché a volte è la situazione in sé che modifica comportamenti e modi di pensare secondo modelli propri) che finisce per stamparsi sull’identità del paziente. Ma mi hanno colpito (in modo particolarmente incisivo) alcuni episodi di violazione del sé, di intrusione nell’intimità, quando il medico o la suora fanno opera di convincimento religioso (trovo qui due esemplari storie di conversione religiosa che analizzate svelano nel loro apparente candore la cultura dell’istituzione: il possesso dei corpi si trasforma in un minuto controllo ideologico, nell’atteggiamento paternalistico di chi assume un ruolo non richiesto complessivamente salvifico).
4. Così come, infine, mi sembrano rivelatori quelli che Beatrice Carmellini chiama i “racconti della riconoscenza”: “Il tempo cancella - scrive - sbiadisce o rimodella ricordi troppo sgradevoli” (la sofferenza, le mortificazioni, l’esperienza della morte). “I ricordi - cito nuovamente - a volte diventano rarefatti, misteriosamente puliti, panni lavati alla fontana e stesi al sole; allora ecco che i medici sono gli angeli, così come tutti coloro che si sono presi cura della persona malata e della sua malattia, dai proprietari dei sanatori al personale”.
Se le testimonianze orali costituiscono la struttura del volume, un ruolo non secondario lo assume la letteratura (intendo la poesia, il racconto, il romanzo). Chi leggerà “Il tempo dei sanatori” noterà la presenza fin troppo insistita di citazioni letterarie, che assumono lungo il volume funzioni diverse.
Nel secondo capitolo troviamo ciò che sembra una digressione (“Vissi d’arte”) dove Beatrice Carmellini mette in fila gli artisti, i poeti, gli scrittori che hanno vissuto la malattia e/o hanno scritto di essa (da Kafka a Thomas Bernhard). Ma basta giungere a p. 246 per capire che invece quell’appendice costituisce un capitolo dell’autobiografia di Beatrice (qui anche nel ruolo di testimone del proprio internamento sanatoriale): “E leggevo. Volevo mettere un’aureola letteraria all’essere rinchiusa? Non so bene cosa volessi, ricordo che cercavo di capire cosa avessero provato coloro che da questa stessa malattia erano stati toccati, che l’avevano attraversata facendone oggetto d’arte e così tentavo di tradurla in mito e m’accanivo sulle pagine di Mann, Kafka, Rilke, di Katherine Mansfield, di Gide”.
E in queste stesse pagine si profila criticamente anche il rapporto non risolto tra letteratura ed esperienza comune della malattia: “Sembra che scrittori e poeti possano in qualche modo permettersi (il lusso?) di dire, attraverso la parola scritta, quello che invece le persone da noi ascoltate hanno cercato per certi versi di dimenticare”.