Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 13, 2 luglio 2005 Servizi

Stava: la tragedia rimossa

Le perplessità che infastidivano, la superficialità, il disastro; e dopo, è accaduto di peggio. Ricordi e valutazioni di un testimone d'eccezione.

Nell’autunno del 1984 un amico mi invitò a visitare i bacini di laminazione dell’estrazione della fluorite da Prestavel. Aveva visto dei bambini tuffarsi nel laghetto centrale del bacino superiore, non vi erano sbarramenti, non vi era alcuna indicazione di pericolo e temeva che qualche bambino potesse annegare in quelle acque torbide; era poi scandalizzato dal taglio di alberi autorizzato dai Servizi Forestali per innalzare ancora quel secondo bacino, che poggiava sul primo sottostante ormai esaurito. "Ma come, si vanno a sacrificare piante tanto imponenti, tanto belle?" - mi chiedeva.

I parenti delle vittime al processo.

Quando andai sull’orlo verso valle del bacino, ci vidi abbandonata una grande macchina da movimento terra, con il braccio allungato verso valle: da poco avevano finito di scavare per tappare delle falle. Scandalizzati dal disordine, dall’abbandono, dalla fatiscenza del luogo, ci allontanammo.

Il giorno successivo chiesi un incontro al sindaco di Tesero, il geom. Adriano Jellici, e gli feci presenti le mie perplessità sui pericoli in zona. Mi rispose infastidito che l’argomento non era di sua competenza, che "lassù" ci pensava la Provincia e le piante le aveva tagliate la forestale. Chiesi del progetto per i bacini, delle autorizzazioni che un Comune deve rilasciare per opere tanto imponenti, obbligatori per le discariche. Non c’era nulla. Perché tanta curiosità?

Il 19 luglio (da tre giorni ero ricoverato in ospedale: dei tronchi caduti da una catasta mi avevano schiacciato le gambe), poco prima delle 13 sentii le ambulanze che cominciavano i loro tristi viaggi, urlando rabbia, impossibilitate a trasportare persone vive. Chi veniva trovato era morto, irriconoscibile, i corpi erano contorti, pezzi di membra: in breve l’intera valle si trovò coinvolta nel lavoro alla ricerca disperata di superstiti e nell’aiutare volontari, vigili e corpi militari, in mezzo al fango, senza mangiare, senza bere, senza fermarsi, fino allo sfinimento. Mi feci dimettere dall’ospedale, chiamai un’amica chiedendole di venire a prendermi, portarmi a Tesero, ed ovviamente sostenermi nel camminare.

19 luglio 1985: i soccorsi nel fango.

Dal ponte sul torrente, dal Municipio, dai volti delle persone, appoggiato alle spalle di Antonella, ho potuto, finché le gambe hanno retto, seguire quei lavori e raccogliere le impressioni dei sopravvissuti, dei residenti, dei pochi turisti che avevano compreso la gravità dell’accaduto. Avevo davanti a me il ricordo della superficialità, dell’inadeguatezza di quel sindaco.

Partì l’inchiesta, un dirigente forestale subito finì in galera per qualche giorno, l’unico atto clamoroso dell’allora procuratore della Repubblica Simeoni. Si costituì un comitato delle vittime di Stava, che vide protagonisti agguerriti due avvocati trentini, Sandro Canestrini (l’avvocato del Vajont) e Vanni Ceola e che si distinse dagli altri gruppi perché nel corso del processo non cercò solo il giusto risarcimento economico dovuto ai parenti delle vittime, ma soprattutto chiese giustizia. Anche Le ACLI di Milano provarono a cercare giustizia, ma alla fine solo alcuni tecnici della Provincia e dirigenti della società mineraria e la Montedison vennero condannati.

Come già detto, in Comune ufficialmente i bacini non esistevano, mai l’amministrazione si era interessata di quel cancro posto sopra la testa dei suoi cittadini. In Provincia era appena stata elaborata la cartografia del nuovo Piano Urbanistico, ma anche qui i bacini non esistevano. E’ evidente come prima la Montedison e poi l’azienda bergamasca, gestita da fratelli che fino a pochi anni prima erano gelatai, avessero goduto di favori importanti a livello politico: nessun altro cittadino avrebbe ottenuto tali agevolazioni in presenza di tante, incredibili omissioni. Parlare solo di superficialità, come è stato scritto negli atti processuali, è probabilmente limitativo. Le vittime della tragedia di Stava ancora oggi non hanno ottenuto giustizia, nessun politico è mai stato chiamato in causa.

Ma è accaduto di peggio. Pochi anni dopo, mentre si ricostruivano gli alberghi distrutti (posti letto moltiplicati, volumetrie regalate) e le aziende artigianali e commerciali, mentre si ricostruiva la strada verso Lavazè e Pampeago, anche questa di dimensioni esagerate, si proponeva di fare di località "Le Pozzole" un’area sciabile per famiglie e bambini. Un pugno nello stomaco rivolto ai pochi cittadini rimasti a chiedere giustizia. Il comitato alternativo, assieme a chi scrive e a pochi amici, aveva invece proposto di progettare un grande parco-foresta della memoria con piante diverse dalle solite conifere: tante latifoglie, un percorso di riflessione.

Ma è impossibile che questo avvenga in valle di Fiemme. Oggi la valle di Stava la si legge cementata. Una grande strada sale fino nel cuore della conca di Pampeago. Le seconde case hanno coperto anche parte della superficie dei bacini e si sviluppano lungo i cinque chilometri della nuova strada in un caos urbanistico che ha dell’incredibile. La conca di Pampeago è diventata una delle aree sciabili più invitanti del Trentino, si sono occupati con piste ed impianti perfino i pendii valanghivi, ettari di superficie sono coperti da opere paravalanghe. Non c’è più nulla che possa ricordare quel 19 luglio del 1985: l’opera di rimozione della tragedia, questo fastidio che tanto prurito causa agli amministratori di Fiemme (si pensi anche alle due tragedie del Cermìs), è totale. Solo i più curiosi possono arrampicare ed andare a vedere la montagna di Prestavel, ridotta ad un colabrodo dalle innumerevoli gallerie che l’hanno penetrata. La tragedia causata dalla disattenzione dell’uomo, dalla sua avidità, ha aperto una nuova ferita, quella ambientale.

Due anni fa la forza della natura ha voluto lasciare un suo nuovo forte segno di ribellione. Una violenta notte di vento ha schiantato, meglio dire schiacciato, da Stava fino al passo di Lavazè, migliaia di abeti e larici. Nel salire lungo la nuova strada veniamo accompagnati da questo deserto, da radici sollevate, da un ambiente arido. Arido come si è dimostrato l’essere umano nel trattare questo territorio, prima e dopo la tragedia: una totale assenza di conoscenza, di rispetto, di riflessione, di passione.