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QT n. 4, 26 febbraio 2005 L’intervento

Ma quale guerra civile?!

Anni ‘70: stavamo cambiando il mondo, le zuffe tra ragazzotti maneschi erano irrilevanti. Non confondiamo un grande movimento storico, con il tema, secondario, della violenza.

Le ultime vicende, giudiziarie e giornalistiche, relative al rogo di Primavalle di trent’anni fa (l’abitazione del segretario del locale partito neo-fascista data alle fiamme, con successiva atroce morte dei due figli) hanno innescato un dibattito sugli anni ’70. Anni plumbei, di attentati terroristici, di continui violenti scontri fra fazioni opposte, "una guerra civile" - è stato da più parti e con diversi accenti ripetuto. Con questo mettendo una pietra tombale sulla memoria collettiva del grande movimento, studentesco, giovanile, operaio (termine oggi arcaico, eppur vero) che ha attraversato quegli anni. Movimento ormai non solo passato, ma trapassato (come appunto testimonia l’odierna incongruità della parola "operaio" a fianco di "giovanile", scritta due righe sopra, e che oggi stride come una pietra su una lavagna).

Ma anche se quegli anni sono ormai storia, è pur importante darne una valutazione equilibrata, non solo per correttezza culturale, ma anche per evitare di dare messaggi, sottoporre esempi sempre e inutilmente negativi ai giovani di oggi.

Di qui la mia esigenza di scrivere queste righe; come uno dei tanti testimoni e, nel mio piccolo, dei protagonisti, di quegli anni.

Sinceramente, la guerra civile, che ricorda in particolare in un’intervista il ministro Alemanno, all’epoca giovane fascista, mi sembra cosa da fantascienza. O meglio cosa loro, dei neo-fascisti, allora autentici paria della società ("fascista" non era una collocazione politica, era un insulto, per la stragrande maggioranza della popolazione). Per me, e per i tanti come me che affollavano assemblee, dibattiti, scrivevano e distribuivano volantini, frequentavano da studenti le Camere del Lavoro o da operai i collettivi studenteschi, i fascisti erano l’ultimissimo pensiero. In una decina d’anni di (intensa) attività politica, non ho mai né dato né ricevuto una sberla, né rincorso nessuno, né sono fuggito da alcuno.

Dirò di più: nutrivamo un aristocratico disprezzo per la sparuta minoranza di coloro i quali, in altre organizzazioni, si dilettavano nella ricerca dello scontro con i fascisti. "E’ la solita storia, come i ragazzi della via Pal: alcuni giovani maschi devono esprimere la nascente virilità con la zuffa" - si commentava con aria di superiorità. Quando ad un convegno nazionale del Manifesto vedemmo dietro il palco un servizio d’ordine "agguerrito", con un giovane nerboruto che dava ordini militareschi, "Chi è quella gente?" chiesi al mio vicino "Brutta gente, non piacciono neanche a me" - rispose. Alla riunione successiva erano scomparsi.

In effetti altre erano le cose cui ci si dedicava e per cui ci si appassionava. Stavamo cambiando la società.

Sì, perché oggi, dopo trent’anni, possiamo pur rivendicarlo. Sono cambiati i rapporti tra uomini e donne; tra genitori e figli; tra studenti e professori; tra preti e fedeli; si è ribaltato l’atteggiamento verso la sessualità; è cambiato il costume. Quando andavo alle medie, gli studenti che osavano indossare i jeans venivano sospesi; quando ci tornai da professore, anche il preside li portava: erano i rapporti con se stessi (più liberi) e con gli altri (meno autoritari), che erano cambiati; il preside poteva essere autorevole anche senza essere ingessato. Da professore, al torneo di tennis della scuola, dimenticai i calzoncini e giocai in mutande; nessuno fiatò.

D’accordo, tutto questo era anche il riflesso del passaggio da una società prevalentemente contadina ad una pienamente industriale: ma sta di fatto che noi ne eravamo gli interpreti, all’interno di un movimento mondiale, dal Giappone alla Cina, a tutta l’Europa, al Messico, alla California…

Poi c’erano gli aspetti più propriamente politici, che però rimandavano ad una visione definita della società, egualitaria e solidale. Basti pensare al tema dell’egualitarismo: all’inizio degli anni ’70 i contratti sindacali prevedevano normalmente aumenti uguali per tutti (cioè il dirigente aveva 50.000 lire d’aumento come l’operaio), che diventavano invece inversamente proporzionali (60.000 lire all’operaio, 30.000 al dirigente) nei casi più "avanzati". Oggi tutto questo appare una bestemmia; allora era il tentativo di costruire un’altra società.

Una società più evoluta, fondata su rapporti più liberi e paritari; il progresso come portato non della concorrenza, ma del lavorare assieme, collettivamente. Si va avanti forse più piano, ma tutti assieme; l’altro non è il concorrente, il nemico, ma quello che ti aiuta. E poi tutto questo correre, correre, questa mania dello sviluppo, per arrivare dove? Devo vivere in un mondo di nemici per avere due automobili invece di una?

C’era una fortissima tensione etica: il tempo lo dovevi usare per migliorare la società, non dovevi buttarlo via. Quindi bando alle frivolezze, abbandonammo perfino lo sport, inutile perdita di tempo.

Di fatto dal ’68 il movimento in breve si espanse nella società: dalle università alle fabbriche, alle scuole superiori, dentro la Chiesa post-conciliare, fino in ambiti prima impensabili, come il carcere, la caserma, il manicomio.

Questo era il rivolgimento epocale per cui ci si impegnava. Di fronte a tutto questo, cosa mai potevano significare i quattro ragazzotti cui piaceva menare le mani?

Erano più o meno quello che oggi sono gli ultras che si accoltellano negli stadi: fenomeno riprovevole ma, rispetto all’insieme del movimento sportivo, fatto da milioni di praticanti: una zecca sulla criniera di un cavallo.

Poi le cose cambiarono. La storia presentò il conto: il movimento aveva cambiato costume e modo di pensare, ma non era riuscito a dar vita a nuovi rapporti sociali. Nelle scuole gli studenti non sapevano costruire un nuovo sapere, ormai si limitavano a chiedere di studiare poco; le fabbriche resistevano, ma il padrone si rivelava non un’escrescenza della storia, bensì il motore propulsore dell’organizzazione; nella politica la democrazia assembleare si rivelava illusoria, e le nostre formazioni politiche extra-parlamentari ricalcavano, in piccolo, i difetti dei partiti, e vi aggiungevano grotteschi eccessi di autoritarismo e settarismo.

Fu allora che il discorso della violenza divenne, per alcuni, seducente.

Intendiamoci, rispetto alla violenza il movimento non fu mai innocente. Anzi, nella visione etica che ci animava, rappresentava un discrimine fra i rivoluzionari veri e quelli da salotto, nella convinzione che un cambiamento radicale dei rapporti sociali non sarebbe stato democraticamente accettato dal Potere (si parlava così). Convinzione rafforzata nel ‘73 dal golpe appoggiato dagli americani contro il Cile socialista di Allende e, in casa nostra, dal ’69 in poi, dalle stragi ordite da settori (deviati?) dello Stato più o meno in combutta con formazioni fasciste.

Quindi: "loro", si sa, useranno la violenza; tu che farai? Starai a guardare quando arresteranno i compagni? Di qui l’accettazione del passaggio violento come ineludibile; se non lo accetti, non sei onesto con te stesso, sei ridicolo, un rivoluzionario da operetta. Bisognerà passare "dalle armi della critica alla critica delle armi" come scriveva Marx; perché, come cinicamente spiegava Mao-Tse-Tung, "il potere nasce dalla canna del fucile".

Fin qui arrivammo tutti. Disposti a difendere con il sangue le conquiste sociali.

Poi ci furono quelli che ritenevano eticamente purificatore il momento dello scontro, che veniva ricercato, in una sorta di cristiano martirio che esaltava i puri (ricordo come al Manifesto di Palermo era stato, con una certa ironia, istituito un "Premio Matteotti" per chi poteva vantare più pestaggi subiti dai fascisti).

La stragrande maggioranza non fece i passaggi ulteriori. Era stata la storia, l’incapacità o impossibilità di costruire il nuovo, a sconfiggerci; non la violenza del Potere o quella dei fascisti, disprezzati ma impotenti.

Invece ci furono quelli che, di fronte ai progressivi fallimenti politici, invece di ripensare tutto e magari dedicarsi ad altro, si incattivirono.

Così poco a poco il cavallo del movimento si imbolsì fino a tirare le cuoia; e la zecca dei quattro ragazzotti maneschi divenne un mostriciattolo autonomo, e pericoloso.

Ma per favore, non confondiamo le due cose. Gli anni ’70 furono ben altro che gli scontri fra ultras!