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Soldati

Incontro a un posto di blocco.

Prima o poi si arriva dove si vuole, quasi sempre. Il problema è il tempo che ci si impiega. Non ci si può muovere liberamente, neppure per pochi kilometri. Alcuni checkpoint sono fissi, altri vengono creati in poche ore e rimossi altrettanto velocemente. Gli autisti palestinesi hanno una rete di comunicazione incredibile, per cui sanno sempre dove si può passare, quali sono le strade chiuse e quali quelle che probabilmente consentono l’accesso. Ad un checkpoint ci sono delle jeep militari e alcuni soldati, quasi tutti giovanissimi, sempre armati, che fermano le auto e i pullmini, esaminano bagagliai e pacchi e chiedono l’identità di tutti. I controlli possono essere più o meno accurati a seconda della situazione e dell’umore del soldato. L’esercito israeliano è autorizzato a decidere tutto sul posto, senza dover chiedere permessi ai superiori. Così se in una postazione viene deciso che è pericoloso far circolare la gente, la zona può essere chiusa o messa sotto coprifuoco.

In genere si chiudono le entrate principali alle città in territorio occupato, obbligando la gente a scegliere una via alternativa, ovviamente più lunga. I soldati sono consapevoli del fatto che esistono molti modi per raggiungere, ad esempio, Betlemme: la strada normale e le vie tra i monti. Lo sanno, eppure continuano a chiudere la strada principale. Così la gente deve cambiare più volte mezzo di trasporto e spostarsi a piedi per lunghi tratti… per poi scoprire che il checkpoint intanto è stato rimosso o si è spostato poco più in là.

Noi, in quanto internazionali, abbiamo dei privilegi, e spostarsi non è difficile. Spesso ci è riservata una via preferenziale, e se insistiamo, di solito ma non sempre, riusciamo a passare pure nei giorni di chiusura, anche se i soldati tentano di convincerci che "per la nostra sicurezza" faremmo bene a non passare. Comunque tutto dipende dal caso e dalle persone che si incontrano. Ci sono dei soldati volgari, altri convinti di essere dèi in terra, altri sono più spaventati di noi, altri annoiati, altri ancora tentano di fare amicizia e capire cosa ci facciamo qui.

Hebron è chiusa ormai da più di una settimana, eppure noi volontari passiamo facilmente. L’altro ieri, tornando da Gerusalemme su un taxi collettivo, abbiamo trovato sbarrate tutte le vie di accesso a Hebron e l’autista mi ha chiesto se potevo andare io a parlare col soldato per vedere di convincerlo. Il soldato, abbastanza gentile, dopo aver sgranato gli occhi quando gli ho detto che vivo a Hebron e volevo tornarci, mi ha risposto che solo io potevo passare il posto di blocco, a piedi ovviamente. Poi avrei preso un altro taxi. Ho insistito che facesse passare il pullmino: niente da fare. Ovviamente sono rimasta sul pullmino con la gente del posto, e al check point successivo (senza soldati, ma la strada era bloccata da cumuli di terra e sassi) siamo passati tutti a piedi, lasciandoci il mezzo alle spalle.

Per i locali le cose sono molto più difficili. I controlli ai checkpoint possono durare ore per poi concludersi con un "no". E il perché ormai non lo si domanda quasi più. Durante i controlli del passaporto spesso i palestinesi devono stare accucciati per terra, in genere con le mani sulla testa, sotto tiro di almeno un soldato. Spesso devono restare così a lungo, mentre i militari cantano canzoni nazionaliste o si fanno i fatti loro. L’attesa è sotto il sole, sotto la pioggia, a debita distanza dal posto di blocco, a volte solo il tempo necessario al soldato per finire la sigaretta ed esaminare il passaporto, altre volte per ore. A volte i passanti vengono perquisiti, mani al muro.

Il mio maestro di arabo non riesce ad entrare in città da giorni, lui che vive in un villaggio a 10 minuti da qui.

Domani devo andare a Betlemme: so che probabilmente arriverò a destinazione, ma non so quando.

Hebron, nove di sera. Io e Pau camminiamo verso la città vecchia. In giro solo topi e gatti. Ci avviciniamo lentamente al check point che si trova all’entrata della strada principale verso la casbah. Parliamo a voce alta in inglese, muovendoci al centro della strada, nella parte più illuminata, lo zaino su una spalla sola: guardate, non contiene esplosivo, è leggero...

Un fuoco illumina una delle via di accesso al posto di blocco. Fino a una settimana fa qui c’era solo una cabina mobile con qualche soldato all’interno, dei blocchi di cemento e un soldato di guardia sul tetto dell’edificio sovrastante. Ora hanno installato una torretta militare in cemento (sarà qui che faranno passare il muro?), una di quelle dal cui interno si può vedere senza essere visti, e filo spinato all’entrata delle vie. E’ un posto che di notte mette i brividi, anche perché spesso ci sono soldati con le armi puntate verso la strada.

Camminiamo tranquilli, sembra non ci sia nessuno. Poi una voce, un soldato esce dalla torretta e ci ferma. Ci parla in ebraico, gli diciamo che parliamo inglese, ci chiede di dove siamo. Sembrava la prassi, già avevamo la mano in tasca per estrarre il passaporto, invece arrivano altri due soldati, sui 18 anni, armati di tutto punto con tanto di elmetto. Ridono: "Italia, ah, Italia, Roma". Uno parla al telefono lottando con la cinghia dell’elmetto troppo stretta per poter avvicinare l’apparecchio all’orecchio. Chiacchiera con un amico - presumo - e dice che si trova con un’italiana e uno spagnolo. Ride e scherza in ebraico. Sembrano contenti di vederci, hanno la faccia di quelli che hanno già passato diverse ore annoiandosi in una postazione di guardia. Siamo un diversivo. "Dove andate?" -Nella città vecchia-. "A fare cosa?" (con aria effettivamente sorpresa) -A casa-. "Casa? Abitate qui?! - ci risiamo - E perché?" -Perché no?-.

Ride. Capiamo che con loro possiamo osare un po’. E loro continuano con le domande. "Cosa fate qui?" -E voi cosa ci fate?- "Che c’entra, noi ci abitiamo qui, ma voi, sinceramente, che siete venuti a fare?" -Un progetto della Comunità Europea-. "Comunità Europea? - rivolgendosi all’altro con aria interrogativa - mmm… le Nazioni Unite?" -No, non le Nazioni Unite…-.

Non sanno di cosa si tratta. Spieghiamo brevemente, e loro: "Ah, Europasì, quella. E che cosa fate qui?" -Volontari per un progetto, uno scambio culturale...- "Ah, allora aiutate gli arabi".

Il soldato continua a sorridere, un po’ incredulo e sarcastico ma interessato. E prosegue. "Con cosa? Soldi? Portate cibo?" -No, è un po’ più complesso, siamo qui, impariamo, insegniamo…- "Imparano? Come? Imparano quelli?"

Intanto il suo collega insiste al telefono parlando un po’ col suo amico e un po’ con noi. "Voi due siete sposati? Amici? Volete conoscere una ragazza israeliana? Un ragazzo israeliano?" Ride.

E' tempo di andarsene, ci sentiamo a disagio, non sappiamo bene come comportarci. Non vogliamo essere troppo amichevoli: non vogliamo che qualche palestinese ci veda mentre parliamo coi soldati. Facciamo per avviarci ma dopo pochi passi ci richiamano. Erano andati nella torretta a prendere qualcosa ed escono con una macchina fotografica. Vogliono una foto.

Una foto? Non sappiamo che dire, non vogliamo nessuna foto. Uno dei soldati, basso, elmetto, giubbotto antiproiettile, M16 a tracolla, abbraccia Pau e si mette in posa. Un quadro davvero comico: il soldato aggrappato alla spalla di Pau, il fucile tra di loro, la borraccia che cade, l’elmetto sbilenco. Ma Pau si sottarae e ce ne andiamo. Loro non capiscono perché non vogliamo una foto…

Ce la filiamo prima che qualche occhio palestinese veda e ci colleghi irrimediabilmente ai soldati, togliendoci la fiducia. Immaginate? Per fortuna i soldati non hanno controllato i passaporti, non sanno i nostri nomi.

Arriviamo a casa confusi. Sono questi i soldati che presidiano di notte i posti di blocco di Hebron? Dei ragazzini che sanno poco o nulla di quanto li circonda? Che vanno a fare il turno di sorveglianza con la macchina fotografica? Sono questi gli stessi che lanciano gas lacrimogeno nei cortili delle scuole, che lasciano che i coloni picchino i palestinesi sotto i loro occhi, che sparano pallottole di gomma sulla gente?

Tutti gli abitanti di Israele - uomini e donne - devono fare il servizio militare di 3 anni e poi una volta all’anno vengono richiamati. Qualcuno chiede - per paura o per rifiuto morale? - di non andare nei territori occupati, ma tanti ci si ritrovano. Poi ovviamente c’è di tutto. Fanatici, sionisti esaltati e ragazzi che lo fanno perché non fare il servizio militare significa finire in prigione o essere marchiati a vita nella propria carriera lavorativa e sociale. Gente normale che si annoia la notte a stare in una città deserta. Gente che ha paura di stare qui, tra gli arabi, e non sa niente di loro se non che sono dei nemici terroristi.

La paura la vedo spesso negli occhi di questi soldati, soprattutto la notte. Certo, gli israeliani e tanto più i soldati hanno delle responsabilità. Ma a volte penso a come sarei se fossi nata qui, e dall’altra parte, quella degli occupanti.