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QT n. 9, 1 maggio 2004 Monitor

Da Ruzante a Castelli, un viaggio nella Storia

Riuscita l'operazione di Andrea Castelli di presentare Ruzante in dialetto trentino, attualizzando il contesto: qualche anacronismo storico, ma tanto mordente, sagacia, ritmo in uno spettacolo che non lascia indifferenti.

Un Castelli in ottima forma… il Ruzante in scena… il Sociale ridisegnato a nuovo: la Stagione non poteva avere un epilogo migliore. In più fa piacere che, nonostante qualche defezione nelle prime serate, l’adesione del pubblico sia stata buona e accompagnata da un sincero entusiasmo. Ma cos’ha di speciale il doppio dialogo "L’alpin che torna da la guera - El Faina"? Anzitutto la scena spoglia eppure straordinariamente ampia e profonda di Roberto Banci. Quasi tutta la platea è divenuta una quinta, su cui la visuale era perfetta sia dai palchi laterali sia dalle poltrone disposte, per l’occasione, a ferro di cavallo. Pochi gli oggetti scenici presenti, giusto il necessario per evocare le diverse ambientazioni: un covone, paglia sparsa, dei sassi attorno ad una pozza d’acqua per la campagna; un semplice lampione ed un portone, ricavato da un’uscita di sicurezza laterale del teatro, per la città. Marco Bernardi conferma così il suo talento di regista, messo in ombra ultimamente da alcuni allestimenti "minori". Qui invece dà un contributo decisivo per la riuscita della pièce, anche grazie alla sua capacità di conferire unità e coerenza all’azione. L’opera, difatti, è costruita su due atti, ovvero su due facce che, partendo dai testi originali di Ruzante, si rimandano l’un l’altro. Il tutto racchiuso nella cornice suggestiva (usiamo per una volta tale aggettivo) del coro degli alpini, che apre e chiude ciascun episodio: prologo e morale. Non un esercizio di stile, ma una forma che anima un contenuto, un discorso coraggioso ed ambizioso: trasporre il mondo cinquecentesco dei lanzichenecchi e del sacco di Roma al nostro mondo, trentino e non troppo lontano, della Grande Guerra.

Andrea Castelli.

Qualche polemica, che comprendiamo ma non condividiamo, ha suscitato l’uso frequente di parolacce e soprattutto la demitizzazione dell’alpino. Nel primo caso ci limitiamo a dire che il linguaggio triviale compare solo nei passi in cui lo stesso Ruzante l’aveva previsto, e anche in modo più blando, dato che il dialetto trentino ha un repertorio meno colorito del rustico. Per la seconda questione spendiamo invece qualche parola di più. Già il coro, composto da veri alpini, basterebbe a far capire che le critiche e l’ironia di Castelli nascono dal rispetto per la gente, dall’amore della verità. I nostri eroi di guerra avevano anche loro, come tutti, incertezze e debolezze; così appare da lettere e diari pubblicati solo di recente. La censura impedì a lungo la pubblicazione, persino la consegna della posta se ritenuta disfattista, denigratoria; gli autori stessi furono talvolta processati, imprigionati, passati per le armi. L’altro lato della medaglia, di cui vi proponiamo uno stralcio autentico, non cancella il sacrificio e gli atti di eroismo ma li restituisce ad una dimensione più umana, vera, storica, errori ortografici compresi: "Vi voglio raccontare un pochino come me la passo io qui, come ci trattano al fronte. […] Si fa altro che maledire i nostri superiori […] che vogliono tante mondizie, dico mondizie perché è fuori di ogni immaginazione […]. Sino che eravamo al masatorio cioè in prima linea, in rischio di farci macelare ogni minuto, e ci trattavano un po’ meglio perché avevano paura più di noi, e quando si fava per avanzare cridavano avanti, avanti altrimenti vi sparo. Altro che dire nella stampa, e voi certo l’avrete letto sul Corriere che spiegava quei drappelli della morte che vanno seriamente e volontariamente a quella pericolosissima operazione […] che specialmente chi va non torna più […] certo si rischia la pelle, altrimenti la pelle me la fanno i nostri superiori. […] Spera Cara Molie che vada terminata questa guerra micidiale che invece di diminuire, va allargandosi sempre più e fa piangere Madri, Padri, Molie, Figli, Fratelli e Sorelle di tutti quelli che si ritrovano in detta guerra".

Il lodevole e puntuale adattamento storico-filologico contiene comunque una grave inesattezza ed un anacronismo. Saccheggi e razzie, per cui divennero tristemente famosi i lanzichenecchi, mal si adattano allo spirito umile e umanitario degli alpini. Ci chiediamo quindi perché tale riferimento sia stato mantenuto… Più un peccato veniale invece l’allusione alla stregoneria nel contesto del primo dopoguerra. L’ultimo processo in terra trentina ebbe luogo nel 1715 (quasi settant’anni dopo quello ben più celebre di Nogaredo) e Maria Toldini da Pilcante attese la sentenza nelle gelide e tetre prigioni del castello di Avio. Perciò perde di senso la battuta del Faina sulle streghe che "si bruciano talvolta nelle piazze". Ma a parte ciò, lo spettacolo ha mordente, sagacia, ritmo, dimostra maturità intellettuale dietro un’apparente leggerezza. Castelli governa con maestria il registro comico e drammatico, ben supportato dagli altri due interpreti maschili, Antonio Caldonazzi e Giovanni Vettorazzo, specialmente nel secondo episodio. Deludente, invece, la performance di Susanna Gabos (Beppa), mentre Licia Miorando, seppure un po’ sotto le righe, è convincente nel ruolo di Dina, alle prese con gli ardori del Faina e gli agi del vecchio Artemisio.

Finalmente, è il caso di dirlo, un’opera in dialetto che promette ciò che mantiene e dà voce ad una terra senza arroccarsi nel locale.

Continuate così!