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Riforma della giustizia: occhio alla trappola!

La condanna di Andreotti, l'inchiesta sui no-global, l'errore giudiziario; e il tentativo di limitare l'indipendenza della magistratura.

Mino Pecorelli era un brutto tipo. Ricordo i fogli della sua agenzia, aggressivi, insinuanti, ricattatori. Qualcuno dei molti nemici che si era fatto lo ha ammazzato. Stento a credere che sia stato Andreotti . Il divo Giulio disponeva sicuramente dei canali per arrivare alla mafia. La notizia di questi giorni che è morto Vito Ciancimino, con Salvo Lima suo console in quel di Palermo, sembra quasi una maligna coincidenza per ricordarcelo. E tuttavia tendo a escludere che la raffinata spregiudicatezza, degna di un grande cardinale di curia, con cui Andreotti ha maneggiato il potere, sia giunta al punto di ricorrere all’assassinio.

1979: l’omicidio di Mino Pecorelli.

E invece la Corte di Assise di Appello di Perugia lo ha ritenuto colpevole. Due magistrati e cinque giudici popolari l’hanno condannato. La Corte di Assise di primo grado, al contrario, lo aveva assolto. La differenza fra i due giudizi probabilmente è data da sfumature nel valutare l’attendibilità delle dichiarazioni dei pentiti. Se ci fosse ancora la formula dell’insufficienza di prove, probabilmente entrambe le sentenze avrebbero concluso in quel modo. Spetterà alla Cassazione esaminare la logicità della motivazione, cioè compiere quel difficile lavoro intellettuale che consiste nella interpretazione degli indizi, nel verificarne i riscontri e la reciproca concordanza. Poiché questo è il compito, estremamente arduo, del giudice. Per adempierlo non basta conoscere la legge e nemmeno essere imparziali. Occorre una capacità di raziocinio, di discernimento di ciò che è essenziale da ciò che è secondario, di analisi e sintesi al tempo stesso di altissimo livello. Non sempre tali qualità sono presenti in chi svolge una così delicata funzione. Per questo motivo l’ordinamento prevede ben tre gradi di giudizio.

La sentenza di Perugia è piombata come un fulmine in un paesaggio già turgido di roventi polemiche intorno alla giustizia. Già il tema era stato portato in primo piano dal perdurante braccio di ferro di Berlusconi e la sua maggioranza con i giudici. E’ ormai più di un anno che la cronaca è dominata da un ping pong devastante fra le udienze del Tribunale di Milano e le leggi che a marce forzate gli avvocati del premier fanno approvare dal Parlamento. La Procura di Cosenza ha arrestato 20 militanti del movimento new global sotto l’accusa di sovversione contro lo Stato sulla base d’un teorema che, a quanto riferito dalla stampa, appare anche più cervellotico di quello Calogero del 7 aprile 1979. Dell’ampio discorso che il Pontefice ha pronunciato nell’aula di Montecitorio il punto che il mondo politico e la stampa hanno quasi esclusivamente rimarcato è stata l’esortazione ad un atto di clemenza verso i detenuti. Berlusconi si è fatto paladino della grazia a Sofri, guardandosi bene dal porvi mano utilizzando i suoi poteri, ma solo con un’innocua lettera al giornale del suo amico Ferrara. La Corte Costituzionale rimanda al mittente l’ordinanza con cui la Cassazione aveva sollevato la questione di costituzionalità sul legittimo sospetto, argomentando che la questione non è proponibile perché manca, nel caso concreto, ogni indicazione di elementi che giustifichino un qualsiasi sospetto. Non bastasse, il mondo del calcio è anch’esso sottosopra, investito da un’ondata di sfiducia negli arbitri, i giudici delle gare. La condanna di Andreotti ha gelato un po’ tutti, e si è levato un coro, fra stupefatto ed indignato, di invocazioni a riformare il sistema giudiziario. E qui c’è la trappola!

Che la nostra giustizia abbia bisogno di interventi è vero: per migliorarne l’efficienza e ridurre la durata dei processi. Ma da quel che si è visto, non è questo il punto che preme alla maggioranza. Anzi, finora si è operato in direzione opposta: aumentando le garanzie che si possono utilizzare per inceppare i meccanismi, senza dotare le strutture dei mezzi adeguati per farvi fronte (più magistrati e servizi), Gli unici interventi veramente utili costano, e, dato lo stato in cui Tremonti ha ridotto la finanza pubblica, appaiono altamente improbabili.

Quali sono allora le riforme invocate, su cui l’emotività provocata da clamorosi errori giudiziari, come la condanna di Andreotti e l’indagine cosentina, sembra orientare anche il consenso dell’opposizione?

Col pretestuoso e velleitario intento di impedire gli errori dei giudici si medita in realtà di limitarne l’indipendenza. E questo è un pericolo assai maggiore del rischio di singole sentenze sbagliate.

Bisogna rassegnarsi all’idea che l’errore giudiziario è un’eventualità inevitabile. Non è attribuibile a toghe rosse o nere. E’ insito nella fallibilità umana. Il problema è antico. Ludovico Antonio Muratori, nell’ottobre 1742, trattando "dei difetti della giurisprudenza" e in particolare "dell’indifferenza richiesta nei giudici", dopo aver considerato i vari accorgimenti sperimentati o ideati per realizzare il massimo di imparzialità e infallibilità, così conclude: "Ma questi sono vani ed impossibili ripieghi. Perciò solamente resta che si scelgano al ministero della giudicatura persone timorate di Dio, pratiche delle leggi e del suo mestiere, che sappiano ben raziocinare, e pregar Dio che l’indovinino in giudicare".

L’errore è sempre possibile. Ciò che si può fare è escogitare i meccanismi per correggerlo. Ciò che non si deve fare è sopprimere o anche solo limitare l’indipendenza del magistrato che deve essere soggetto solo alla legge ed alla sua coscienza, e dare dei suoi atti esauriente motivazione.

E che Dio ce la mandi buona!