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Città santa e lacerata

Luigi Sandri, Città santa e lacerata. Gerusalemme per ebrei, cristiani, musulmani. Editrice Monti, Saronno, 2001, pp.416, 20,66.

La fede, da intimo stato di grazia personale, da domanda sull’esistenza e sulla vita, ha generato le religioni organizzate. Il dono, il dialogo privato dell’uomo con Dio, ha generato teologie ed etiche, istituzioni e riti, diversi e contrapposti. Cioè guerre lunghe e sanguinose. Perché la fede, si domandava Renato Ballardini, (QT, n.1-2001, In nome di Dio) "un sentimento così rispettabile", genera, in "una metamorfosi perversa", le religioni? Potremo aggiungere: sono stati Mosè, Gesù, Maometto, tre grandi "impostori"?

E’ la storia degli uomini che genera sia l’istanza d’universalità sia il bisogno d’identità. Persino quando i credenti hanno fede nello stesso Dio, riconoscono nel padre Abramo il medesimo originario profeta, e considerano, tutti, come santa, la stessa città, Gerusalemme, si verificano lacerazioni drammatiche.

Luigi Sandri ricostruisce la storia di Gerusalemme in tre distinti capitoli, "dalla parte" degli ebrei, dei cristiani, dei musulmani. Ma il verbo che ricorre, perché le identità dei popoli si costituiscano e si affermino, è "conquistare", con le armi in pugno. Il capostipite Abramo strappa Gerusalemme ai cananei (1950 prima dell’era volgare), il re Davide ai gebusei (1000), il califfo Omar ai cristiani (638 dopo l’era volgare), il crociato Goffredo ai musulmani (1099), il Saladino ai crociati (1187). Il dominio islamico sulla Palestina, degli arabi, dei mamelucchi, infine dei turchi ottomani, durerà quindi, seppure con interruzioni, dal secolo VII al XX.

Ma a "conquistare" Gerusalemme sono anche i babilonesi di Nabucodonosor (587) e i greci di Alessandro Magno (332 a.C.), i romani di Pompeo (63) e di Tito (70 d.C.), infine gli inglesi che nel 1917 subentrano agli ottomani sconfitti nella prima guerra mondiale.

La storia del ‘900 è ripercorsa la Luigi Sandri con accuratezza ed equilibrio. L’autore, trentino di origine, noto anche ai lettori di questa testata, è stato corrispondente dell’Ansa a Tel Aviv, e oggi è il vaticanista de l’Adige.

La storia di Gerusalemme, e della Palestina, negli ultimi cento anni, è complessa e tragica. Due popoli, il palestinese e l’ebraico, e tre religioni, l’ebraica, la musulmana, la cristiana, "convivono" su una striscia di terra estesa come la Puglia.

Quando nel 1922 inizia il mandato britannico, in Palestina risiedono 515.000 arabi musulmani e 62.500 arabi cristiani. Gli ebrei, rientrati dalla diaspora sotto la spinta del sionismo, per sfuggire alle persecuzioni soprattutto nell’impero russo (i pogrom), sono 65.000.

Nel 1936, per sottrarsi alle persecuzioni di Hitler in Germania, gli ebrei arrivano a 400.000. Poi cresceranno ancora, per sfuggire ai fascismi, alla guerra, alla Shoah. Quando, nel 1947, l’Assemblea delle Nazioni Unite decide per la divisione della regione in uno Stato ebraico, uno Stato arabo, e Gerusalemme corpo separato e gestito dall’Onu, gli ebrei sono 550.000 (il 30%) su una popolazione totale di 1.810.000. Oggi in Israele gli ebrei sono 5 milioni (mentre altri 10 milioni sono dispersi in un centinaio di paesi, soprattutto negli Usa). Sono invece un milione gli arabi israeliani, e quasi 4 milioni i palestinesi costretti a fuggire dalle proprie case, dopo le guerre del ’48 e del ’67, che vivono profughi a Gaza, in Cisgiordania, nei Paesi arabi vicini.

I numeri freddi ci parlano di migrazioni e di insediamenti, di colonizzazioni e di esodi, avvenuti attraverso le guerre e i trattati collettivi della politica, e le scelte private, nella speranza e nella violenza, della vita quotidiana degli individui.

Leggendo la storia di Luigi Sandri, arricchita dalle memorie dei protagonisti e dalle citazioni di documenti ufficiali, capiamo che la "convivenza" futura, in cui molti, da una parte e dall’altra, continuano a credere, non può venire che da una politica nuova, innervata da un processo di formazione delle coscienze, dei giovani innanzi tutto.

La questione investe il rapporto fra storia e politica, fra verità e giustizia, fra memoria sociale e verità storiografica. La storia può e deve essere usata pubblicamente, ma non esiste una verità storica a cui approdare, unica e oggettiva, a cui convincere tutti, sulla quale fondare la convivenza e la pace.

Facciamo un esempio. L’accusa, che lì si scambiano sui libri di testo, è proprio di travisare le rispettive storie: quelli palestinesi ignorano lo Stato d’Israele e la Shoah, quelli israeliani ignorano i diritti e le lotte del popolo palestinese. Così, a scuola, più che alla convivenza si incita all’odio.

Ma l’antropologia ci insegna che si ricorda diversamente perché si è diversi, che la memoria e l’identità si influenzano fino a sovrapporsi. Non esiste un manuale di storia, che io sappia, in cui francesi e tedeschi, austriaci e italiani, raccontino "insieme" la prima guerra mondiale. E sulla questione sudtirolese le storie resteranno per sempre divise, anche se è bene studiare insieme, approfondire, limare, senza stancarsi.

Che gli ebrei siano arrivati, e siano divenuti israeliani in uno Stato di cui noi, l’Onu di allora, abbiamo tracciato i confini, fu per i palestinesi una "ingiustizia". Che gli ebrei, in quel rifugio ambìto, dopo secoli di persecuzioni, abbiano trovato i palestinesi, e tutti gli arabi, in guerra, lo considerarono una "ingiustizia". Ogni pace futura, per quanto equilibrata, sottoscritta, condivisa, non potrà cancellare quella doppia originaria ingiustizia.

Lo Stato d’Israele definisce giuridicamente "arabi israeliani" quel milione di cittadini che si autodefiniscono "palestinesi d’Israele". La risoluzione n.242 del 1967 del Consiglio di sicurezza dell’Onu chiede il ritiro delle forze israeliane "dai" (o "da"?) territori arabi occupati.

Il rapporto della commissione internazionale presieduta dal senatore statunitense George Mitchell dichiara che la visita di Sharon, del 28 settembre 2000, alla Spianata delle Moschee, "non ha causato" la seconda intifada, ma che "il momento è stato infelice e l’effetto provocatorio avrebbe dovuto essere previsto". Basta l’autorevolezza della commissione per dirimere il contrasto fra le "verità" contrapposte, quella israeliana e quella palestinese?

I pochi esempi citati dimostrano che il cammino per arrivare alla pace sarà difficile e lungo, perché ognuno dovrà saper ricordare e dimenticare. L’oblio è l’altra faccia della memoria.

Scrive Dalia Ashkenazi, ragazza ebrea, a Bashir, il palestinese di cui ha occupato la casa nel 1948: "Ciascuno di noi vede attraverso le lenti create dalle sofferenze subite dal suo stesso popolo. La memoria della nostra infanzia, la tua e la mia, sono intrecciate in modo tragico. Se non troviamo i mezzi per trasformare questo travaglio in una benedizione condivisa, il nostro attaccarci al passato distruggerà il nostro futuro".

Se quello che gli israeliani considerano terrorismo, è per i palestinesi eroica lotta di liberazione, sarà possibile arrivare a una "pace giusta"? Luigi Sandri, in più occasioni, ripete questa urgente necessità, di una "pace giusta", ma tutta la storia che lui racconta, irta di antinomie, sembra renderla impossibile.

A Trento, in occasione della presentazione del libro, qualche mese fa, una "pace giusta" auspicavano i due interlocutori presenti. Enrico Franco, ebreo, e Khaled Hussein, palestinese, elogiavano entrambi l’equilibrio con cui l’autore aveva condotto la sua ricerca, ma con "pace giusta" intendevano - fu l’impressione che ne ricavai - due cose diverse. E’ di una "pace ingiusta", allora, a cui devono, dobbiamo, adattarci? Quali autorità coraggiose saranno capaci di imporla? Quale contributo noi, da fuori, possiamo portare? Della storia passata, e della pace futura, "ingiuste", noi, europei e cristiani, non siamo innocenti. Portiamo la responsabilità della Shoah, e un interesse al petrolio che ci ha spesso accecati.

Gerusalemme è veramente "una" e "molteplice": solo l’ossimoro sembra la lingua capace di definirla. Ci sono israeliani, ed ebrei, che riconoscono la tragedia palestinese e ci sono palestinesi capaci di interiorizzare l’orrore della Shoah. Ci sono israeliani, ed ebrei, capaci di criticare Sharon. E c’è Sari Nusseibeh, presidente dell’Università Al-Quds, che condanna gli attentati dei kamikaze, persino la militarizzazione della seconda intifada, e collabora con l’Università ebraica in progetti culturali comuni.

Che possiamo fare noi? Luigi Sandri ci ricorda che Israele è un paese altamente sviluppato, mentre la costituenda Palestina appartiene al Sud del mondo: su questo sottosviluppo l’Europa, e l’Italia, possono intervenire. Sui pellegrinaggi dei cattolici in Terra Santa, l’autore nota l’interesse dei fedeli per i luoghi, le "pietre", e il disinteresse per i popoli che vivono lì. Quasi mai nel viaggio è inclusa la visita a Yad Vashem, il memoriale della Shoah.

Luigi Sandri propone infine che in prospettiva Israele e Palestina entrino simultaneamente nell’Unione Europea, indicando così ai cittadini italiani un obiettivo sul quale impegnare le forze politiche a cui danno il voto.

Se c’è un appunto da fare al volume, è l’assenza di un capitolo che informi sulle posizioni assunte dall’Italia, dai suoi governi, dal parlamento, dalle forze della cultura e della società civile.