Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 11, 1 giugno 2002 Servizi

Depressione: fra speranza e disperazione

Diario di una depressione cronica. Una vita fatta di sofferenza repressa, dall'infanzia ai cinquant'anni, nelle brevi, intense parole di una donna in dolorosa lotta con se stessa.

Sono una bambina. Domande inespresse, desideri taciuti e paure represse. Così forte è il timore di un rimprovero, il rischio di una punizione: meglio il silenzio, la chiusura in se stessi. Quando diventa verità (perché troppe volte te lo sei sentito dire) che sei sbagliata e che in te qualche cosa non va, ti inventi una vita dove nessuno possa entrare. Crescendo ti illudi che un giorno potrai finalmente esprimere te stessa, far liberamente scelte e progetti di vita.

La bambina è cresciuta nel fisico, ma la struttura interiore è fragile e malferma, non ha la forza di emergere. Anche per me verrà il momento del coraggio? Ho quindici anni, vivo in un ostinato silenzio con l’amore un po’ folle per lo studio (rifugio ideale) ed i libri, miei amici fedeli. Questo corpo, che è quasi di donna, manifesta con il rifiuto del cibo la fame d’affetto e la mancanza di un rapporto con il mondo. Recito la parte assegnatami di figlia ben educata, e dentro, per compagna, l’inquietudine. Raggiungo i traguardi consueti: diploma, lavoro, matrimonio, figlio. Vista da fuori una famiglia felice.

A trent’anni, ho un figlio che è fonte di grande gioia, un marito fedele, una casa in ordine, i miei hobby: sembra non manchi nulla per vivere bene. Tuttavia, dentro di me quel vuoto di affetto non si è mai colmato. Esplode la prima di tante crisi di panico. Mi sento sola, incompresa, accusata di non saper apprezzare la vita. Io sto male e capisco la necessità e l’urgenza di fare qualcosa. Il mio medico comprende subito il carattere psicosomatico dei miei disturbi e mi consiglia un incontro con un neurologo, il quale mi diagnostica una nevrosi ossessiva. Con l’uso e l’abuso di psicofarmaci riacquisto la capacità di uscire di casa da sola. Ma per guarire davvero è consigliabile il supporto di uno psicologo. Sapendo quante energie e quali fatiche occorrono per un’analisi, rifiuto: mio figlio è ancora piccolo e ha bisogno di me tutta intera. Perché lui possa crescere comunque sereno tento di domare i sintomi della malattia.

Riprendo a camminare per strada, a studiare, a coltivare i miei interessi. Accade, quasi per caso, che venga accolta in un gruppo di amici. Con loro sto bene, non ho più paura, mi sento guarita. La vita è una gran cosa e solo ora imparo ad amarla, quando prende e quando dà. In questi pochi anni (ne ho quaranta) gli amici se ne vanno: chi con l’ultima dose, chi per Aids, chi per malattie causate dall’alcol.

Finisco per isolarmi, vivo in uno spazio solo mio, evitando così il confronto con gli altri. E’ di nuovo la malattia, che mi fa sentire sbagliata e fuori posto. La vita, da fuori, scorre apparentemente tranquilla: nessuno può sospettare.

Agosto 2000. Troppe sono le notti insonni e tanti i digiuni, preoccupata di nascondere a chi mi vive accanto una verità che ben conosco. Dedico ogni mia energia per soddisfare i bisogni altrui, sono succube dei miei ruoli. Mi comporto così per non fermarmi a riflettere sui rischi ai quali vado incontro trascurando me stessa e il mio malessere. In cinque anni più volte sono crollata fisicamente. Mi rivolgo ad una persona in grado di ascoltarmi e comprendere, attenta ed esperta dei mali dell’animo umano. Mi incontro con lui due volte alla settimana, mi fa parlare molto per alleggerire la tensione che sempre mi accompagna, ma che al contempo rappresenta un puntello.

Nei momenti di relativa quiete, sento che è possibile ritrovare energia e speranza, pensare al futuro con ottimismo: mi convinco che anch’io valgo qualcosa e sono degna come tutti di stare al mondo. Questo per me è già tanto, ma ci rendiamo conto che la situazione è più grave di quanto sembrasse: è necessario prendere altri provvedimenti.

Un’amica che lavora nel settore mi porta a conoscenza che presso l’ASL opera un Centro per i Disturbi del Comportamento Alimentare. Lo staff che mi visita definisce la mia magrezza patologica (a cinquant’anni peso quaranta chili) e mi spiega che una persona può decidere di vivere o morire: se sceglie la seconda opzione, può decidere come. Giusto! Sono parole che mi colpiscono: mai io sarei arrivata a conclusioni di questo tipo.

Capire che non è saggio alimentarsi poco e male è alla mia portata: sono sincera, non mi sono preoccupata affatto dei danni che il corpo subisce digiunando e della gravità di essi. La mia non è però l’anoressia primaria di cui il centro si occupa, bensì depressione, perciò mi consigliano di rivolgermi al Dipartimento di Psichiatria. Lì sostengo un breve colloquio: mi assegnano ad uno psicologo, il quale, dopo quattro chiacchiere frettolose, conferma che si tratta di depressione cronica. Il servizio pubblico non può sostenere il peso economico di una terapia che si prospetta lunga ed impegnativa, e quindi mi suggeriscono di rivolgermi ad uno psichiatra che esercita privatamente.

Devo considerarmi davvero ammalata oppure gestire la mia esistenza così com’è? Presa dal dubbio e dall’incertezza, chiedo consiglio a chi, vivendomi vicino, conosce me ed il mio percorso. Sono tutti concordi nel suggerirmi di prestare fede all’esortazione di chi mi ha visitato.

Sono sei mesi che io e il mio analista ci incontriamo una o due volte a settimana. Più di una volta ho provato il desiderio di lasciar perdere: questo frugarmi dentro per riordinare le cose, per alleggerirmi dei pesi che rallentano il passo, per dare sfogo alla mia sofferenza repressa, per imparare a sorridere alla vita. Insomma, per imparare a volermi bene.

Quella diagnosi, "depressione cronica", mi tormenta come fosse un marchio indelebile. In questo percorso spesso mi ritrovo scoraggiata e stanca, convinta che le parole di un amico pronunciate con affetto mi infonderebbero il calore necessario per sciogliere il gelo di questa malattia.