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“Il piacere di pensare”

James Hillmann, “Il piacere di pensare”. Rizzoli, Milano, 2001, pp. 171, € 11,36.

In un giardino romano la filologa Silvia Ronchey incontra James Hillman, famoso psicologo americano allievo di Jung, nonché filosofo dell’epoca moderna. Dalla raccolta dei loro dialoghi esce un libro che ci offre suggestioni e spunti interessanti, occasioni di riflessione su svariate tematiche, che si dipanano nel fluire del testo permettendoci di comprendere alcune questioni fondamentali del nostro tempo. Un saggio che cattura l’attenzione e stuzzica la nostra curiosità fin dalla lettura del titolo: "Il piacere di pensare".

Già, il binomio piacere-pensiero è un aspetto che ci coglie di sorpresa poiché siamo avvezzi ad associare le espressioni di piacevolezza a tutt’altri contesti. Inseriti in un ingranaggio sociale che dà valore soprattutto al fare, all’agire immediato, ci siamo scordati dell’importanza del pensare fine a se stesso, per la propria crescita interiore, anzi, spesso il "meditare" ci dà noia. Ma per non ridurre il nostro cervello a mera appendice, Hillman ci invita ad aprire l’orizzonte della mente ritrovando il piacere di pensare spontaneamente, con una certa "sfrenatezza" e libertà di spirito, per far affiorare la passione delle idee, l’erotismo della mente, che egli paragona alla forza emotiva vissuta nel periodo dell’innamoramento.

La vena autobiografica dell’autore ripercorre con stile narrativo vivace questa modalità del pensare facendo emergere ricordi di conversazioni, fatte nel periodo del suo iter accademico, nei caffè di Parigi o nei pub di Dublino, occasioni di vera conoscenza poiché "il luogo dell’apprendimento si trova ovunque la mente diventi viva".

Hillman analizza con profondità di contenuti le espressioni della condizione umana e, fra questi, il dolore, elemento che da sempre ossessiona la cultura occidentale nel tentativo di capire le ragioni della sofferenza: "Non importa la ragione: il dolore è parte integrante dell’esistenza umana… credo che non si debba pensare al dolore come a qualcosa che redime, né come a qualcosa di utile per noi, ma neppure come a una cosa dannosa, né come alla conseguenza di una colpa… c’è qualcosa che possiamo ricavare dal dolore, come da qualsiasi lato dell’esistenza."

Non meno interessante è il ritratto che egli traccia di un nostro stadio evolutivo, la vecchiaia, intesa come qualità dell’essere che esprime il nostro carattere, il quale ha bisogno di molto tempo per potersi manifestare. Ma nel diventare vecchi acquisiamo saggezza? No, perché nulla viene aggiunto, anzi attiviamo un processo di "scarto", così nella vecchiaia si acquisisce semplicità, poiché abbiamo utilizzato tutto il nostro tempo per eliminare il non necessario e far affiorare ciò che è veramente autentico.

Nella lettura cogliamo la sensibilità dell’autore non solo nell’esprimere le problematiche della condizione umana, ma anche nella sua capacità di relazionarsi con la natura. Ecco allora che il giardino ci offre delle metafore della nostra vita psichica. "La caduta delle foglie, la paralisi della vita durante l’inverno... il movimento dell’acqua tra le rocce. Sono tutte esperienze che anche l’individuo umano fa, solo che le esprime con i concetti complessi della psicologia, mentre il giardino le esprime con il linguaggio della natura, o in ciò che Jung chiamava la psiche oggettiva".

Facciamo quindi parte di una "anima mundi" che trascende la nostra individualità e per questo soffriamo per la distruzione di ciò che ci sta attorno: l’estinguersi delle piante, degli animali, delle culture, ecc…. Come reazione a queste percezioni negative siamo depressi. L’autore ci propone una sua interpretazione della depressione, intesa anche come atto politico di ribellione di fronte ad uno stile consumistico che ci sta soffocando. Conduciamo una vita frenetica che esprimiamo in una forte pulsione all’avere, al comprare e la depressione è uno stop a questa "accelerazione".

La Hillman proietta il suo lavoro al di là della nostra soggettività psicologica portandoci fuori, nel mondo globale, offrendoci motivi di riflessione alla luce degli ultimi avvenimenti della cronaca internazionale. Egli interpreta la ferita ricevuta l’11 settembre come un input che può apportare mutamenti nella psiche americana per condurci ai veri fini della politica: bellezza e giustizia. "Credo che il nostro ‘Bush-tipo’ che fa il bullo e mostra i muscoli non sia la realtà dell’America di oggi. Abbiamo disperatamente bisogno di un mutamento di forma mentale, di un’iniziazione che possa ricollegarci di nuovo ai valori fondamentali, in modo da farci vedere quanta bruttezza e ingiustizia l’America è arrivata a rappresentare."

Nel testo affiora quindi la natura poliedrica dell’autore, e le sue argomentazioni, sebbene frammentate nel fluire della conversazione, non ci forniscono risposte ma nuove sollecitazioni. Insomma, possiamo dire che di fronte a tutto il materiale libresco soporifero che ci sovrasta, il saggio ci permette di ritrovare almeno il piacere di pensare.

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