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QT n. 5, 9 marzo 2002 Monitor

“Saccarina”: il volto umano del teatro

Uno spettacolo catartico il lavoro di Ascanio Celestini sulla Shoa, rappresentato all'Auditorium di Trento.

Si alza il sipario. Loro sono già lì: sedie, strumenti, leggii, cassette da frutta, persone. Lei canta in piedi; dolce, triste… sembra un angelo, un flauto traverso che mormora "Sakarinà". Poi è un uomo a parlare, di getto, un fiume in piena. Troppe cose da dire, c’è il rischio di perdersi e non ritrovarsi più, proprio come il povero irlandese di cui ci narra la storia: è morto, ha una moneta ed è affamato. Ma la moneta è turca, antica, fuori corso, e non ci puoi comprare nemmeno un pezzo di pane, né in Irlanda né in Turchia. Così, il povero defunto viaggia invano tra due continenti, vede il mare per la prima volta e se ne torna indietro, rassegnato.

Il gruppo degli Klezroym.

Tutto passa, ma quel tutto non va dimenticato. È questo il senso di ciò che "accade" dopo, ed è per questo che lo spettacolo si chiude con le stesse parole, lo stesso aneddoto. Quel che è in mezzo è solo una delle strade per tornare al punto di partenza, per quanto doloroso e disumano possa essere il cammino. Perché in mezzo c’è il ghetto e lo sterminio degli ebrei. Solo adesso l’uomo acquista un nome, come anche il suo compagno di sventura: Ascanio Celestini, Olek Mincer. A poco a poco narrano quei giorni pieni di speranza e di terrore, di sogni e di lavoro. E mentre li ascoltiamo, la vita scorre, senza azione, davanti ai nostri occhi. In fondo, non succede nulla, ogni attimo è affidato alla voce, agli strumenti. Una vera doccia fredda per noi, abituati alla guerra in diretta, a seguire le traiettorie dei missili fino a pochi secondi dall’impatto. Ma la Storia è un’altra cosa e, a vederla davvero, fa male.

Roma e Lodz, due città coinvolte nel delirio del nazismo. Ascanio e Olek ci guidano per le loro strade, com’erano nel ’43, nel ’45. Ed ecco il ghetto, povero come la scena. Non si trova nulla, nemmeno il caffè o lo zucchero per addolcirlo. Ma c’è la saccarina e, se si vuol leggere, ci si accontenta di un libro di cucina, l’unico rimasto in tutta la comunità. La vita si ripete sempre uguale, giorno dopo giorno, insieme ai sogni e ai muri contro cui s’infrangono. Haim Mordechai Rumkowsky trasforma Lodz in un’azienda: "Finché si produce, i tedeschi non ci deporteranno". Ma non bastano il sudore, le ossa rotte, e nemmeno i 50 chili d’oro raccolti a Roma per i nazisti. Entrambe le città sono sfollate, in pochi si salvano per poterlo raccontare.

Il cerchio si chiude, con i morti e le monete in bocca. Una fiaba amara dove i cantastorie sono testimoni, sono carne. Le fatiche di ogni giorno si alternano agli aneddoti: re Salomone con la sua saggezza, o gli angeli che, per misericordia, mutano una pietra in un bambino. Non si può capire il mondo ebraico se non si accetta che l’ebreo appartiene a Dio prima che a un’epoca o a una terra; e a Dio deve tornare. È lo Shtetl, il luogo delle origini in cui tutto inizia e tutto finisce, qualsiasi cosa accada nel frattempo. Per questo "Saccarina" ci commuove: ci costringe ad ascoltare invece che a vedere, mentre le parole s’inseguono nel ciclo della vita, nel mito dell’eterno ritorno.

La musica non accompagna il testo, dialoga con lui mescolando voci a note, lingua a lingua. È quasi un controcanto. Appassionati, allegri, malinconici questi Klezroym, che eseguono canzoni popolari "rubate" al ghetto. E poi, Laura Polimeno, i suoi acuti fragili e i suoi gravi rochi, come inferno e paradiso.

Ma che si creda o meno, lo spettacolo non perde la sua forza. E’ un pugno nello stomaco, capace di atterrarci per poi farci rialzare. La nascita e la morte sono punti fissi, ma quello che facciamo fra i due estremi siamo noi a deciderlo. Spesso, purtroppo, decidiamo anche per gli altri e in quel momento siamo già parte della storia. Diceva Peter Bichsel: "Poiché posso raccontare io esisto, e poiché posso raccontare la vita, la sopporto".

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