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“Laika”

Uno scenario angosciante

A volte gli ossimori esistono veramente. Non sono solo delle figure retoriche linguistiche, ci sono proprio. Non so quanti chilometri si devono fare per raggiungere le convergenze parallele, o quanto whisky devi bere per percepire il ghiaccio bollente, però chi non ha mai veramente vissuto un eloquente silenzio? Io sì. Così posso dire che mi sono piuttosto divertito ad uno spettacolo che non mi è piaciuto poi così tanto. E anche il contrario, che non mi ha convinto molto uno spettacolo interessante. Le contraddizioni in termini possono essere reali. È quello che provo per “Laika” di e con Ascanio Celestini, andato in scena venerdì 19 febbraio al Teatro Sociale.

Ascanio Celestini

Prendiamo per esempio la sua gnagnera romanesca, piatta, tutta d’un fiato che a volte ti viene proprio da dire “Ma come azzo parli! Ecché stai addì!”. Uno stile un po’ forzato che rimanda allo pseudo-autismo comunicativo di certi miseri umani, ridotti a inespressive macchinette. Ma poi l’attore trasforma questo parlato in scansione narrativa che costringe a una diversa attenzione alle parole. Il ritmo senza tono, le sospensioni non enfatiche, le interruzioni e riprese sono il fluire dei fatti, del racconto. A volte funziona, a volte meno, a volte non ci fai caso, a volte è inaccettabile. Così escono le sue storie, quelle di Celestini, della sua famiglia, di quei mondi intimi e universali, di quei vissuti.

“Laika”, il suo nuovo spettacolo, è ancora e sempre teatro di narrazione. Scenografia essenziale di 6 abat-jour per terra, una decina di cassette di plastica colorate e un siparietto dietro il quale un fisarmonicista, oltre a creare momenti musicali, sembra quasi più parte della scenografia, astante e primo uditore delle dissertazioni. E i movimenti dell’attore sono minimi in un palco ridotto a microcosmo di personaggi marginali che si alternano, interagiscono senza soluzione di continuità, creando anche qualche fatica di comprensione.

Ecco il barbone alcolista, immigrato africano che ha perso lavoro casa famiglia e che si racconta e al bar scrocca una sambuca ai vecchi giocatori di carte. L’anziana sola, irrigidita da preconcetti e paure, costretta a incontrare la vecchia portinaia rimbambita dall’alzheimer che l’ossessiona con farneticazioni religiose, e in questo incontro nasce una nuova umanità e compassione. La prostituta stagionata, reietta e orgogliosa che rifiuta l’amore di chi non l’accetta per quello che è. Tutti hanno una storia tratteggiata con la solita intima maestria dell’attore, il quale però, più che ai racconti, pare interessato alla composizione di un quadro di condizioni di odierna ordinaria marginalità.

Uno scenario d’angoscia, senza speranza di emancipazione, al massimo venato di comprensione, dove sopravvivono frammenti di umanità, qualcuno che offre una sambuca. Non c’è altro destino con la lotta di classe, al massimo una misera protesta perdente, che qualcuno riconosce giusta da dietro una finestra. Non c’è amore, affogato nell’orgoglio e nell’incomprensione.

E Dio? Dov’è in tutto questo? Forse è vero che ha creato tutto, compreso il Big Bang che poi ha creato tutto. Certo non è qua ad aiutarci nelle nostre esistenze, al massimo è punitivo con chi si professa scienziato razionalmente ateo, vedi Stephen Hawking colpito da sclerosi e atrofia muscolare, o con chi, come Steve Jobs, l’ha aiutato costruendo un apparecchio che gli permette di esprimersi. E i santi? Intercedono?

Si ride dei paradossi, del grottesco, delle furberie e c’è pure spazio per un po’ di noia in alcune dissertazioni inutilmente diluite (Ostia, la spiaggia…).

Conosciamo il teatro di Celestini, conosciamo le storie, vediamo artifici ed equilibri, apprezziamo tecniche e ritmi. Constatiamo ordinaria dolenza e qualità artistica. Siamo anche noi qui e là, in teatro e in questo mondo, in bilico, al centro di ossimori quotidiani fatti di realtà e sentimenti con i quali proviamo a convivere.

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