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“Il laboratorio della natura”

Paola Giacomoni, Il laboratorio della natura. Paesaggio montano e sublime naturale in età moderna. Franco Angeli, Milano, 2001, pp. 236 , £. 42.000.

A definire la montagna "il laboratorio della natura" è l’illuminista H. B. De Saussure. Sulle Alpi, e sul monte Bianco, egli sale più volte, portando con sé bussola, barometro, igrometro, elettrometro, termometri per la temperatura e la profondità, sestante per la latitudine, oltre a lime, martelli, acidi. L’obiettivo è di cogliere sia l’unitarietà dei fenomeni naturali sia la molteplicità con cui sulle montagne si manifestano.

Scrive lo scienziato ginevrino: "Il fisico trova sulle alte montagne dei grandi oggetti di ammirazione e di studio. Queste grandi catene, le cui vette attraversano le regioni elevate dell’atmosfera, sembrano essere il laboratorio della natura e il serbatoio da cui essa attinge le cose buone e quelle cattive che sparge sulla terra, i fiumi che la irrigano e i torrenti che la devastano, le piogge che la rendono fertile e le tempeste che la sconvolgono. Tutti i fenomeni della fisica vi si presentano con una grandezza e una maestà di cui gli abitanti di pianura non hanno alcuna idea; l’azione dei venti e quella dell’elettricità dell’atmosfera vi si esercitano con una forza strabiliante; le nubi si formano sotto gli occhi dell’osservatore, che spesso può vedere nascere sotto i propri piedi le tempeste che devastano le pianure, mentre intorno a lui brillano i raggi del sole e sopra la sua testa il cielo è limpido e sereno."

Lo scienziato del ‘700 in vetta alla montagna sale con grande fatica, e alle domande si attende certo risposte oggettive, quantificabili. Ma, anche in lui, lo "studio" è subito contaminato dalla "ammirazione", del bello e del sublime, del buono e del cattivo, dell’utile e del devastante. La scienza incrocia l’estetica, l’etica, l’economia. Persino la teologia. Il Diluvio è l’evento che, con la Bibbia, ogni viaggiatore, salendo lassù, porta con sé, per quasi tutta l’età moderna, e con il quale deve misurarsi, a confronto con altri scienziati-teologi.

Per fare piazza pulita del mito biblico è necessario arrivare allo scienziato positivista tedesco Alexander von Humboldt. In "Kosmos" (1845) egli utilizza sia l’approccio descrittivo-comparativo sia quello storico, ma soprattutto scopre, o "inventa", l’organismo unitario, l’armonia cosmica di cui i fenomeni terrestri sono elementi. La nascita delle catene montuose, l’orogenesi, è spiegata riconducendo le rocce a tre categorie fondamentali: magmatiche, sedimentarie, metamorfiche. La geografia nasce, riconoscendo le variazioni e le permanenze, in funzione sociale: la conoscenza della natura è importante perché tutti gli uomini possano servirsi di essa. Per lo scienziato berlinese l’essere democratico, e antischiavista, ha qui il suo fondamento. La cultura scientifica non è contrapposta a quella umanistica, né alla contemplazione estetica: "Chi non si sente di umore diverso a seconda che si trovi alla scura ombra dei faggi, su colline adorne di abeti sparsi o nelle distese erbose dove il vento stormisce tra le foglie ondeggianti delle betulle? Queste forme vegetali del nostro paese natale richiamano in noi volta a volta immagini malinconiche, severe, gioiose."

Ma per approdare dal Cosmo rinascimentale a quello humboldtiano, dall’ordine semplice a quello complesso che conosce il conflitto, la gioia e la malinconia della modernità, il cammino è lungo e tortuoso. Paola Giacomoni, docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Trento, lo fa incominciare con il vescovo anglicano Thomas Burnet. Questi, nel 1671, inizia il Grand Tour certo della verità cartesiana che il cosmo è una macchina regolare, immagine della perfezione del suo creatore. Ma le Alpi, in Italia, gli si mostrano ineguali, informi, nell’aspetto di rovina: "una moltitudine di enormi corpi gettati insieme in confusione". L’anomalia è spiegata dallo scienziato-teologo con la catastrofe biblica del Diluvio. In sincronia con i peccati degli uomini, la crosta terrestre, creata liscia e perfetta, si ruppe. Le montagne, molteplici e irregolari, appaiono, come effetto del diluvio, una "rovina". L’orrido, il disordine, il caos, gli ripugnano, ma lo attraggono anche. La mente si sente sopraffatta dalla loro grandezza terribile: il dato visivo sfuma in quello etico della decadenza, e in quello estetico del sublime, come lo chiamerà Edmund Burke un secolo dopo. Nella "teoria sacra" di Burnet ci sono già i temi delle età successive.

A John Dennis le Alpi paiono disegnate dalla natura "in stato di follia", ed è "un piacevole orrore" l’emozione che suscitano. L’ossimoro diventa la figura per rappresentare l’inedito, il non rappresentabile. Per Antonio Vallisnieri il Diluvio, invece, non fu catastrofe distruttiva e sconvolgente, ma ebbe piuttosto una funzione costruttiva, "materna", in quanto portatore della base materiale necessaria alla vita degli animali e dell’uomo.

Acceso fu il dibattito fra le teorie "plutoniste", che spiegavano la formazione della crosta terrestre in base all’azione del fuoco, e quelle "nettuniste", che la spiegavano con l’azione del mare. Esso coinvolse Linneo e Buffon, Kant e Goethe.

Gradualmente, nelle montagne, la varietà, l’irregolarità, il disordine, apparvero come valore. Per Rousseau la natura selvaggia ha una funzione rasserenante sulle passioni umane. Per Haller gli aspetti negativi delle popolazioni alpine si rovesciano in positivi: "la povertà diventa frugalità, la fatica inclinazione all’attività fisica di un popolo robusto, la rozzezza semplicità, la mancanza delle prerogative della vita cittadina si innalza come libertà".

Il conflitto fra ragione e immaginazione provoca quella dimensione estetica ed emotiva che anche Kant chiama "sublime": è "lo stupore che confina con lo spavento, il raccapriccio e il sacro orrore che prova lo spettatore alla vista delle montagne che si elevano fino al cielo, di profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose, di una profonda e ombrosa solitudine che ispira tristi meditazioni". Soltanto Hegel vede nella montagna un puro essere senza mutamento, e quindi di fronte ad essa prova noia, desolazione, tristezza. Il percorso di Paola Giacomoni si conclude con W. von Humboldt, e la scoperta, nelle montagne, di un ordine che però non annulla il conflitto, lo assimila anzi.

Chiuso il libro, il lettore è stimolato ad interrogarsi su come la montagna, nei due ultimi secoli, ha potuto far fronte ai desideri, e agli interessi diversi, che l’hanno aggredita. Afferrate, e sezionate con gli strumenti della scienza e della tecnica, le rocce delle montagne ci hanno svelato la verità, che la natura è un "laboratorio" in cui agiscono forze, attraverso mutamenti lenti, e eventi traumatici. Forze che siamo riusciti a descrivere, e talvolta a imbrigliare, anello dopo anello, in catene di numeri, di leggi, di formule.

Finché il poeta, nostro contemporaneo, ha riscoperto "il filo da disbrogliare", una verità altra, proprio ne "l’anello che non tiene", in "uno sbaglio di Natura". E così tutto torna disarmonia: ma lì forse è il "varco", sussurra. La chimica di Lavoisier e Mendeleiev, quantitativa e rigorosa, dalla nomenclatura semplice ed efficace, non è dunque, sulla natura, l’unica, e definitiva, parola. Eugenio Montale continua, a nome nostro, ad interrogare. Già John Keats, poeta romantico, accusò la scienza di aver distrutto l’arcobaleno, quando la fisica calcolò che esso era il prodotto della vaporizzazione dell’acqua.

Nessun Diluvio - la critica storica oggi ci dice - ha mai sconvolto la terra: era dunque, il racconto biblico, un mito.

Ma possiamo noi, nel terzo millennio, poiché la scienza e la storia sanno come funziona "il laboratorio della natura", fare a meno dei miti? Il nostro disagio è la prova che non ci bastano le spiegazioni razionali, fra le quali scienziati e teologi, arrabattandosi, fecero rientrare per secoli anche l’acqua, Noè, l’arca, l’arcobaleno, la colomba con il ramo d’ulivo. Il mito ritorna fecondo come racconto simbolico che annulla la logica del particolare, e allude immediatamente all’universale.

E’ la leva per ri-partire e ri-progettare. La mente umana ha bisogno di distinguere e di unificare.

Il Diluvio ci parla oggi di un rischio, e di una speranza. La depravazione degli uomini può essa, non Dio, provocare la distruzione del mondo, e un’alleanza ("l’arcobaleno") lo può salvare: è questa l’esegesi proposta da Paolo De Benedetti in occasione della mostra organizzata a Trento dal Museo di scienze naturali.

Lo so bene. E’ una forzatura trascinare il discorso filosofico di Paola Giacomoni tra il sartiame degli impianti a fune, i sacchi polverosi del cemento, l’odore acre dell’asfalto. Ma la passione per l’utile e per il "progresso", non arginata dal pensiero e dall’emozione, ha fatto delle Alpi (e delle Dolomiti in particolare) un laboratorio sociale, in cui crediamo di poter impunemente superare ogni limite.

I poeti e i filosofi della prima modernità ci mettono in guardia, noi che avanziamo baldanzosi nel postmoderno.

Ci sono in montagna, a sfidarci, anche delle "frontiere nascoste". Quando Jerome Bruner, psicologo e educatore americano, venne in Italia, notò che l’amica, che lo accompagnava nelle passeggiate sui monti, salutava con un cenno del capo chiunque incontrasse. Ed egli, imitandola, continuò a salutare anche quando entrarono nel paese che li ospitava. L’amica però, senza sapergli dire il perché, gli spiegò che lì, fra le case, non si doveva più fare: solo in montagna, infatti, ci si saluta, anche se ci sembriamo stranieri gli uni per gli altri.

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