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Democrazia giudiziaria?

Dopo i pasticci della Florida: sempre più il potere giudiziario invade il terreno della politica. E’ un bene o un male?

Ora che la fase convulsa delle elezioni americane è passata si può ragionare con pacatezza sulle prospettive delle democrazie occidentali. Di solito infatti quanto accade negli USA dopo 30 o 50 anni si ripete in Europa.

Un osservatore attento come Vittorio Zucconi non ha avuto esitazione a scrivere che Bush è entrato alla Casa Bianca"portato per mano dai giudici". Ancora 30 anni fa nel caso Watergate il potere giudiziario era chiamato ad arbitrare: "oggi è sceso in campo a giocare la partita del potere in prima persona" (Zucconi, La Repubblica, 14 dicembre).

La conseguenza è che "l’equilibrio interno della più importante democrazia del mondo è oggi paurosamente sbilancia(o dalla parte del potere giudiziario" (ibidem), che ha fatto irruzione mai come prima nel campo del potere politico. Per completezza dobbiamo registrare il parere di uno dei nove giudici della Corte Suprema, rimasto in minoranza, secondo il quale "non sapremo mai chi ha vinto le elezioni, se Gore o Bush, ma è perfettamente chiaro chi le ha perse: la fiducia del Paese nel giudice come imparziale custode della legge".

Le due contrastanti opinioni collimano nel ritenere che vi è stata una clamorosa invasione di campo da parte della giustizia nella competizione elettorale.

Era inevitabile? Forse sì. Prima che venisse tripartito, il potere era unico. L’illuminismo prima e la rivoluzione francese poi lo divisero in tre, ma ciascun pezzo conservò l’essenza degli altri due, così come in ciascuna persona della Trinità si rispecchia l’unico Dio.

Il punto di partenza è l’affermazione di Montesquieu: "Non vi è libertà quando il potere giudiziario non è separato da quello legislativo e da quello esecutivo. Tutto sarebbe perduto se un’unica persona o un unico ‘corpus’ esercitasse questi tre poteri".

L’indicazione è ancora valida? Sono passati da allora (1748) oltre due secoli e mezzo e la situazione è profondamente cambiata. Ciò che la teoria e la storia hanno diviso tende a intrecciarsi sempre più strettamente, favorendo la supremazia del potere giudiziario. Oggi un americano può scrivere, due secoli dopo il filosofo francese: "Chiediamo ai nostri Tribunali di difendere le nostre libertà, di risolvere le questioni razziali, di condannare la guerra e l’inquinamento, di resuscitare l’economia, di tutelarci prima ancora di nascere, di sposarci, di accordarci il divorzio e, se non proprio di seppellirci, di assicurare che le spese del nostro funerale vengano pagate" (Hufstedler 1971, pag. 901).

ll giudice dunque accompagna il cittadino statunitense dalla culla alla bara. Perché, aggiungo io, non dovrebbero gli americani chiedere alla Corte Suprema di decidere anche chi debba essere il Presidente degli Stati Uniti? Ciò del resto è già avvenuto con Bush, sia pure surrettiziamente: perché scandalizzarsi?

Il problema che preoccupa consiste nel fatto che negli USA come in Italia a1 crescere del potere giudiziario, e alle sue invasioni di campo, non corrisponde una legittimazione democratica. Vi è una tensione o addirittura una contraddizione tra potere giudiziario e democrazia.

Quest’ultima infatti significa rispondere al popolo, mentre i giudici sono auto-referenziali. Questo è il punto per il quale non è stata trovata una ricetta convincente.

E’ possibile conciliare potere giudiziario e democrazia? Credo che questa sia una questione che solo il futuro potrà risolvere. Per ora mi limito a constatare che da almeno un secolo il potere giudiziario non solo erode ma invade, spesso provvidenzialmente, il confine con gli altri poteri. Le ultime elezioni americane lo confermano in modo incontestabile.

Stiamo forse andando in tutto l’occidente verso una democrazia giudiziaria?

E’ possibile. Vi è anzitutto un dato di fatto: dall’epoca del New Deal di Rooswelt al Welfare State europeo l’intervento via via più penetrante dello "Stato provvidenziale" in settori che lo Stato liberale lasciava invece alla volontà privata si è risolto in una gigantesca espansione del sistema giuridico e della sfera decisionale del giudice. Vi è stato inoltre un mutamento normativo: a fianco di quelle proibitive classiche, sono apparse norme dirette a sollecitare o a frenare lo sviluppo sociale ed economico. In Italia abbiamo avuto, per esempio, il referendum nucleare (passato attraverso il filtro della Cassazione e della Corte Costituzionale, che potevano bloccarlo), il quale ha condizionato in negativo la politica energetica del Parlamento e del Governo. Sempre in Italia i Tribunali amministrativi (TAR) si sono pronunciati sulla congruità delle tariffe petrolifere e telefoniche, condizionando addirittura le "finanziarie". Lo scrutinio dei voti, nelle elezioni politiche ed amministrative, passa attraverso il controllo dei Tribunali, delle Corti di Appello e della Cassazione. Non è esagerato dire che il giudice stia diventando anche amministratore e legislatore.

Per fare un esempio alto, la Corte Costituzionale con il controllo di legittimità condiziona direttamente il potere legislativo. Per fare un esempio basso, si sono registrati preso i TAR e al Consiglio di Stato decine di migliaia di ricorsi in materia scolastica. La giustizia dunque, in Italia come negli Stati Uniti, è divenuta da tempo un partner quotidiano nella formulazione delle decisioni tipiche del potere politico ed esecutivo, e nella loro esecuzione attraverso il controllo degli atti amministrativi.

Mi pare che non ci possano essere dubbi: stiamo andando verso una democrazia giudiziaria. Forse non è lontano il giorno in cui anche in Italia vedremo un Presidente della Repubblica designato dalla nostra Suprema Corte.

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