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Il minotauro argentato

Giuseppe Pantozzi, Il minotauro argentato. Museo Storico, Trento, 2000, pp. 191, £. 24.000.

Quando a Cavalese, il 27 novembre del 1944, vi irruppero i soldaati per arrestare Mario Leoni, in quella casa si svolse un dialogo sorprendente. Mario Leoni è sfollato in val di Fiemme da Rovereto, insegna matematica nel Centro scolastico, organizzato con impegno in quel tempo di guerra, per permettere ai giovani di proseguire gli studi interrotti nelle città da cui sono fuggiti.

Tullio Franch.

La moglie del professor Leoni, Luigina Zwerger, tedesca di Anterivo, riconosce subito che il marito è un antifascista. Le ribattono due soldati sudtirolesi, l’uno della Gestapo (la polizia segreta tedesca), l’altro dello SD (lo spionaggio politico delle SS), che anch’essi sono antifascisti. Antifascisti e filonazisti, dunque, per arrestare, con grande spiegamento di forze, un antifascista? Lo ricercano in quanto membro del locale CLN, e la signora Leoni risponde ai soldati sudtirolesi, con qualche speranza di essere creduta, che il marito, benché antifascista, non conosce i partigiani, e non ha alcun rapporto con la resistenza italiana.

Il professore è in ogni modo arrestato e trasferito nel Lager di Bolzano, da dove tornerà, finita la guerra, più fortunato dei compagni catturati negli stessi giorni a Cavalese per una spiata. Moriranno, infatti, Mario Zorzi, studente ventenne, a Flossenburg, padre Costantino Amort, frate francescano, a Mauthausen, e fra Kasimir Jobstribizer a Leitmeritz, presso Praga.

Il dialogo nella casa rosa di Mario Leoni, al momento dell’arresto, rivela la particolarità della situazione nell’Alpenvorland, la "zona di operazioni" comprendente le province di Trento, Bolzano, Belluno, governata da Franz Hofer, un nazista tirolese nominato commissario supremo direttamente da Hitler.

Poteva il Trentino, collaborando con i tedeschi, essere una "nicchia" relativamente protetta in quegli anni terribili, nell’attesa che la guerra finisse, per poi, dotato di autonomia, divenire parte integrante del Reich? O, se la guerra fosse stata vinta dalla coalizione antinazista, prepararsi a tornare, autonomo, nel Tirolo pantedesco, il ricordo del quale è ben più positivo del ventennio fascista italiano? La politica di Franz Hofer, e del prefetto di Trento, da lui nominato, l’avvocato Adolfo de Bertolini, uomo estraneo agli ideali fascisti, fu orientata a questi progetti e promesse.

Furono illusioni. Ma quello della "nicchia protetta" fu il modo di pensare "condiviso da moltissimi trentini", mentre in Alto Adige, addirittura, "i cittadini di lingua tedesca videro nei soldati hitleriani i liberatori".

E’ questa la tesi di Giuseppe Pantozzi, studioso abruzzese, bolzanino d’adozione, testimone diretto del movimento di resistenza in val di Fiemme, e fratello minore di Aldo, che sopravvisse all’esperienza del campo di Mauthausen, e fu poi, nel dopoguerra, notaio a Bolzano. "Il Minotauro argentato" era il messaggio cifrato con cui gli alleati angloamericani si rivolgevano da Radio Londra ai partigiani di Fiemme.

Per dimostrare che in quella nicchia autonoma si poteva attendere, senza troppi guai, la fine della guerra, nell’Alpenvorland, dopo l’otto settembre 1943, dalle autorità furono proibiti, cioè condannati alla clandestinità, non solo i partiti antifascisti, ma anche il "Comitato di indipendenza trentina", che sognava l’indipendenza assoluta della provincia; la "Giovane Italia", fondata a Bolzano da Gino Beccaro, che sosteneva la neutralità fra i due belligeranti; e lo stesso partito fascista guidato da Aldo Briani, che si richiamava alla "fedeltà alle alleanze", ma era anche convinto che Mussolini avrebbe impedito l’annessione dell’Alto Adige al Reich hitleriano, e che avrebbe comunque difeso l’italianità di quella provincia a maggioranza tedesca.

Silvio Corradini.

Le condizioni per organizzare la resistenza in Trentino, e a maggior ragione in Alto Adige, furono dunque particolarmente difficili. La popolazione si mantenne piuttosto distaccata: la massa dei valligiani di Fiemme era titubante fra i tedeschi "che assumevano le vesti dei buoni tirolesi, assicuravano di voler ricostruire i bei tempi del Gesamt-Tirol, avevano soppresso l’inviso partito fascista", e gli alleati "difensori della libertà e della democrazia, ma sconosciuti e lontani, mai visti".

La Chiesa trentina assunse un atteggiamento esitante e incerto: a una popolazione tradizionalmente cattolica Franz Hofer "non chiedeva molto, tutto sommato, solo di stare fermi e ordinati,…e attendere". Per schierarsi con i "ribelli", inoltre, occorreva avere informazioni diverse da quelle propagate da "Il Trentino", "il cotidiano del popolo", che dava ai lettori l’impressione che tutto andava bene nel felice Alpenvorland.

Un certo mutamento nell’atteggiamento della popolazione si ebbe solo dopo il giugno 1944, con la liberazione di Roma, e l’accoglienza dei vincitori da parte del papa, con lo sbarco angloamericano in Normandia, con l’eccidio dei partigiani a Riva del Garda da parte delle SS.

Come si diventa partigiani in Val di Fiemme? Padre Costantino Amort ha conosciuto la democrazia soggiornando a Londra. L’opposizione al fascismo e al nazismo è di antica data, respirata in famiglia, per Ariele Marangoni, Giovanni Franzellin, Armando Bortolotti, Anna Clauser Bosin. Manlio Silvestri è un comunista: più del tricolore ama la bandiera rossa, ed è il segno che la "guerra di classe", per abbattere il capitalismo, si intreccia, anche in val di Fiemme, con la "guerra patriottica" di liberazione nazionale.

Ma Bruno Franch è soltanto un disertore della Wehrmacht, in cui è finito perché il padre nel ’39 ha optato per la Germania: è un partigiano d’istinto, il primo della valle. Egli non si sente tedesco, ma è soprattutto, cresciuto come un "puledro selvatico", insofferente della rigida disciplina impostagli nel reggimento.

Marino Cavada è un giovane carrettiere incaricato dal padre di condurre di notte al passo Manghen un carro carico di pane e di armi: diventa partigiano perché cade nell’agguato tesogli dai militari tedeschi e del CST (Corpo di sicurezza trentino).

Lino Demarchi, operaio, quando è arrestato durante il rastrellamento a Molina, perché trovato in possesso di un fucile, è partigiano da appena due giorni, ma si comporterà eroicamente durante il processo e la detenzione.

Roberto Cavada vuole sfuggire all’arruolamento. I genitori preferirebbero saperlo inquadrato nell’ordinato esercito tedesco, piuttosto che fra i "banditi" a rischio di punizione: è Silvio Corradini che gli consiglia di salire in val Cadino, e così "sparire" alla vista.

Già "Il sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino, nel 1947, racconta che il distaccamento partigiano del Dritto è composto di "ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi. Gente che… s’arrangia in mezzo alle storture, che non ha niente da difendere e niente da cambiare. Oppure tarati fisicamente, o fissati, o fanatici… basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte, nella brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso." Negli anni successivi abbiamo eroicizzato la Resistenza, cancellato incertezze e contraddizioni. Oggi però dobbiamo riconoscerne la complessità.

Possiamo ripetere ancora che la Repubblica, cioè i diritti di cittadinanza, di tutti, nasce in Italia dalla resistenza al fascismo e al nazismo? Lo dobbiamo ripetere, con orgoglio, senza vergogna, consapevoli però che quello non fu un idillio in via della conciliazione, ma una guerra. E ogni guerra, lo sapeva già Erasmo agli albori dell’età moderna, può inquinare gli animi anche di chi combatte dalla parte della ragione e della giustizia.

Silvio Corradini è un operaio comunista, la sua scuola è stata il carcere cui lo ha condannato, per cinque anni, il Tribunale speciale fascista. Noi oggi, dopo l’89 e la caduta del comunismo, sappiamo che quella "verità", per cui combatterono, e alcuni morirono - i Corradini, i Silvestri, i Marco Zadra, gli Andrea Mascagni- non ha retto alla prova della storia, era anzi gravata di tragedie e di crimini, sconosciuti a quei combattenti. Alla lunga i veri vincitori saranno gli angloamericani, cioè l’accoppiata capitalismo-democrazia, un campo d’azione politico, complicato e infinito, non la "verità" totalitaria del comunismo, creduta come l’unica radicale alternativa al nazi-fascismo. Ma proprio quella verità d’acciaio fece allora quei ribelli coraggiosi all’estremo, disponibili al drammatico surplus di violenza richiesto da ogni "guerra civile". Più sanamente diffidenti, persino, dei loro compagni, che in qualche modo però li educarono, e li resero diversi, comunisti italiani.

E’ Silvio Corradini, il commissario politico comunista, l’unico a diffidare del partigiano Bruno Bernardi, che poi si rivelerà il delatore all’origine del tragico rastrellamento di Molina: vorrebbe addirittura liberarsene sparandogli nella schiena, ma è zittito dal "Mando" Bortolotti, fiducioso, umano, inesperto.

La democrazia, sbeffeggiata nelle scuole, sui libri, alla radio, nei comizi del regime fascista, rinasce così, nelle malghe e nei boschi, fra scelte ed errori, e viene pagata a caro prezzo, dai partigiani e dalla popolazione civile. Con rappresaglie sanguinose, operate dai nazisti a Molina e a Stramentizzo. Possiamo mettere nel conto pagato, doloroso, anche le imprudenze e gli eccessi, talvolta, dei partigiani, che li misero in attrito con le popolazioni, e lasciarono nella memoria una scia di divisioni, ancora oggi non ricomposte? Che cos’è, se non un prezzo da pagare, e forse impossibile da saldare in modo definitivo, la polemica che esplode frequente sui partigiani sbandati, che "requisivano" e "saccheggiavano" viveri, o la domanda se a "sparare il primo colpo", all’origine dei massacri, furono i partigiani o i tedeschi?

Quando Primo Levi si domandava se nella storia c’è una violenza utile, rispondeva: "Purtroppo sì". In quel "purtroppo" c’è non solo la differenza fra chi combatteva nella resistenza per la propria e l’altrui libertà, e chi combatteva per dominare ed opprimere. C’è anche la consapevolezza che proprio perché fondativa della Repubblica, quella violenza trascinerà a lungo conseguenze perverse.

Eppure a fare chiarezza "c’è la storia", dice il commissario Kim di Calvino. Pare lo stesso il furore di chi combatte da una parte e dall’altra, ma non è lo stesso furore, perché "noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra… io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo."

La Resistenza, anche alla luce di ricerche come questa di Giuseppe Pantozzi, non ci appare più un blocco compatto di certezze e valori, ma un crocevia storico problematico, intriso di divisioni, di limiti, di progetti anche caduchi, anch’esso autobiografia contraddittoria della nazione italiana. Visto a distanza, più che un faro luminoso, è un passaggio obbligato e scosceso. Snodo decisivo, capace di consegnare alle generazioni successive la libertà di confrontarsi sullo stesso evento fondatore, di riconoscerne i meriti, di criticarlo anche. Di accettarne soprattutto gli aspetti problematici di guerra civile.

Oggi che tante identità nazionali sono in crisi, la guerra civile si riaffaccia alla memoria, perché "la sua minaccia è permanente" - ha scritto Enzenberger: c’è un nesso fra la guerra civile e l’idea stessa d’Italia e d’Europa. La cartina di tornasole che ci avverte che quella eredità incide ancora oggi sulla memoria degli italiani è nell’atteggiamento verso gli immigrati: in chi si richiama alla Resistenza prevalgono l’accoglienza e la solidarietà, in chi la rifiuta le concezioni della diseguaglianza e dell’assimilazione.