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QT n. 13, 24 giugno 2000 Servizi

Un salario senza un lavoro?

La fine del posto fisso e le molte ipotesi che ne conseguono.

La presentazione del libro "Posto fisso, addio. Come cambia il lavoro in Italia" del giornalista Pierangelo Giovanetti è stata, il 14 di questo mese, l’occasione per un dibattito, organizzato da L’Adige e dall’Istituto Trentino di Cultura. Il libro di Giovanetti non è un trattato sociologico, ma la presentazione di una serie di testimonianze di come si possa rispondere creativamente alla disoccupazione, inventando nuove occasioni di lavoro. Nessuno ovviamente si nasconde quante frustrazioni e quanti fallimenti facciano da contraltare ad ogni tentativo felicemente riuscito. Con l’autore, sono intervenuti: Gianni Bonvicini, presidente dell’Itc; Bruno Dorigatti, segretario provinciale della CGIL; Gianni Anichini, vicedirettore di Assindustria; Massimo Egidi, rettore dell’Università di Trento. Il direttore de L’Adige, Paolo Ghezzi, ha fatto da moderatore.

Il dibattito. Dorigatti, accusato di mentalità "metalmeccanicistica" dal rappresentante degli Industriali, ha difeso i diritti dei lavoratori, anche delle nuove forme di precariato, che il sindacato cercherà di "intercettare". Termine infelice, perché fa venire in mente le battaglie aeree con scopo di abbattimento, mentre qui il fine è di creare una rete di tutele. Anichini ha imputato alla globalizzazione dell’economia la necessità per le imprese di perseguire il massimo di flessibilità nell’uso della forza-lavoro. I giovani non devono puntare al posto di lavoro, ma alle occasioni di lavoro (purtroppo, a volte, sono le organizzazioni criminali ad offrire queste occasioni); Egidi ha sottolineato l’importanza della formazione continua, nel corso cioè di tutta la vita lavorativa. Bonvicini ha messo in evidenza l’ambiguità della formula "posto fisso, addio". Il posto di lavoro fisso va considerato un bene o un male? L’addio è un auspicio o un rimpianto?

Una domanda, quest’ultima, che ci ha sollecitati a riflettere, al di là di schemi convenzionali, sulle posizioni dei diretti interessati: i lavoratori e gli imprenditori.

I lavoratori. Per loro, si tratta senz’altro di un "addio" di rimpianto. Tuttavia, crediamo che per il lavoratore il posto fisso non rappresenti una questione di principio. Non vanno certo sottovalutati certi risvolti psicologici legati al posto fisso, come l’attaccamento al proprio lavoro, una rete consolidata di rapporti umani e professionali, una più agevole pianificazione della vita familiare, e, perché no, l’identificazione con l’azienda; ma crediamo che, alla fine, il lavoratore ragionerebbe in questi termini: datemi un reddito certo, poi sul lavoro ci possiamo sempre mettere d’accordo. Un punto di vista che troverebbe giustificazione nella teoria economica del "dividendo sociale", secondo la quale tutti i membri di una collettività avrebbero il diritto di partecipare alla ricchezza prodotta, essendo il capitale, e soprattutto i progressi tecnologici, beni comuni. Da questo filone si dipartono poi le varie teorie e rivendicazioni (e le applicazioni) del reddito minimo garantito.

D’altra parte il sistema economico e lo Stato si aspettano due comportamenti essenziali per la loro propria sussistenza: che i lavoratori consumino regolarmente, cioè che acquistino i beni e i servizi prodotti, e che facciano figli. E per lo svolgimento di entrambe queste funzioni è condizione necessaria il possesso di un adeguato e non aleatorio flusso di reddito.

Gli imprenditori. Per i datori di lavoro, l’addio al posto fisso crediamo sia un auspicio, un’aspirazione, una meta. Perfino il "modello giapponese", che garantiva l’impiego a vita ai propri dipendenti, sta perdendo colpi sotto l’incalzare della globalizzazione dei mercati. Il sogno degli imprenditori sarebbe la fabbrica automatizzata, senza lavoratori, che secondo alcuni economisti sarà lo scenario del futuro, ma si accontenterebbero nel frattempo di avere mano libera nei confronti della forza lavoro. Assumere e licenziare in piena libertà, senza intralci sindacali, incentivare o frenare, assecondando ogni sghiribizzo del mercato. Pur tuttavia non mancano gli studiosi e gli stessi managers che invitano alla cautela. Scrive Angelo Caloia ("L’imprenditore sociale", Ed. Piemme, 1995): "Una serie di licenziamenti indiscriminati può essere legittima in un momento congiunturale sfavorevole, ma può tradursi in una perdita di fiducia dei lavoratori nei confronti dell’azienda che nel lungo periodo si può rivelare negativo: quando la congiuntura si riprende (..), quell’impresa dovrà scontare gli effetti della scarsa motivazione dei suoi lavoratori".

Il Mercato e lo Stato. Bisognerà inchinarsi al Mercato come pensano certi liberisti immaginari, e cavalcare la tendenza di breve periodo o bisognerà ricorrere all’intervento dello Stato, per governare i processi di cambiamento, in un’ottica strategica, superando anche il ferreo vincolo che collega lavoro e reddito?

In realtà, il concetto stesso di mercato, inteso come regime di libera concorrenza, presuppone uno Stato forte che interviene nell’economia, per fissare le regole del gioco, non uno Stato assente. "Le economie più mature dal punto di vista del mercato sono anche quelle nelle quali è meglio sviluppata la legislazione antitrust." (Vedi, Caloia, op.cit.). E basta pensare alla vicenda Microsoft, negli Stati Uniti, per convincersene.

Ci sono economisti che ritengono che solo lo Stato possa conciliare, in una fase di transizione come questa, le opposte posizioni dei lavoratori e degli imprenditori, e garantire le esigenze sistemiche di fondo: il livello di consumo e il rinnovamento della risorsa umana. Proprio un ultra-liberista come il premio Nobel Milton Friedman ha elaborato il concetto di "imposta negativa", secondo cui chi ha un reddito inferiore ad un certo livello, anziché pagare le imposte riceve dallo Stato un assegno, ragguagliato al reddito dichiarato e alla situazione anagrafica (single, coniugato, con figli ecc.).

Sembra una bestemmia: non si fa a gara, oggi, nello smantellare il welfare state? Appunto, propone Jeremy Rifkin, nel suo famosissimo "La fine del lavoro" (Baldini&Castoldi, 1995): sbaracchiamo i carrozzoni e la burocrazia dello Stato sociale e con quei soldi (e con altre risorse aggiuntive) paghiamo i lavoratori in disoccupazione permanente o transitoria, adibendoli ad attività sociali nelle imprese del Terzo Settore. "Agevolare la transizione di milioni di lavoratori da un impiego formale nell’economia di mercato a servizi alla collettività nell’economia sociale sarà essenziale - scrive Rifkin - se il consorzio umano vorrà davvero gestire il declinare dell’occupazione di massa nel XXI secolo".

Sulle prospettive del lavoro dipendente non c’è accordo fra gli studiosi. Anche se il futuro non sarà quello sopra accennato di un sistema produttivo senza lavoratori, le nuove tecnologie e la globalizzazione, la new economy e quant’altro provocheranno certamente una precarizzazione generalizzata del lavoro, una depauperizzazione economica e civile, o addirittura, come molti in America temono, il diffondersi di una subcultura criminale.

Non sembra adeguato rispondere ad una rivoluzione di questo tipo con le esortazioni ad inventarsi il lavoro, a diventare imprenditori di se stesso, confrontandosi a mani nude con il Mercato. Parrebbe necessario, al contrario, elaborare politiche innovative, che mirino a stabilizzare il reddito dei lavoratori, occupati o non, a predisporre un efficiente sistema di formazione continua, a promuovere lo sviluppo del Terzo Settore. Solo così, crediamo, si potrà garantire un ordinato sviluppo dei sistemi economici e della stessa vita sociale.

Il dilemma è drammaticamente sintetizzato da Rifkin nei seguenti termini: "Per quanto riguarda quelli per i quali non ci sarà spazio sul mercato del lavoro, gli Stati si troveranno di fronte a scelte alternative: finanziare il rafforzamento delle forze di polizie e costruire nuove carceri per imprigionare la sempre più vasta classe criminale, o finanziare forme alternative di lavoro nel Terzo Settore."