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QT n. 12, 10 giugno 2000 Cover story

Vino trentino, tanto o buono?

I litigi tra gli operatori vitivinicoli hanno distrutto tutte le istituzioni, il vino trentino è oggi senza guida. Al fondo l’antico dilemma, qualità o quantità? E il ruolo esorbitante, l’eccesso di peso politico di settori del mondo cooperativo. “Dalla Pat niente più soldi, se non vi mettete d’accordo” minaccia l’assessore Andreolli. Ma la risposta è una provocazione.

"Lei ha presente la situazione delle mele alcuni anni fa? Il comparto tirava, gli agricoltori avevano un ottimo reddito, tutti erano contenti. Ma non ci si è attrezzati per il futuro, e oggi la mela è in crisi, gli invenduti si accumulano. Così per il vino oggi: si ricavano ancora tanti soldi. Ma non si lavora per il domani, che si preannuncia molto difficile..."

Le parole del prof. Attilio Scienza, già presidente dell’Istituto Agrario di San Michele e ancor oggi uno dei più accreditati studiosi di vitienologia, ci aiutano per trovare il bandolo della matassa che spieghi l’attuale crisi esplosa tra i viticoltori trentini.

Crisi? Come è possibile? Quando il reddito dei viticoltori ha raggiunto livelli impensati? Per cui il terreno agricolo in Trentino ha i prezzi più alti al mondo o quasi, e tante aziende decidono di espandersi in terre come la Toscana, dove il vino non è da meno del nostro (anzi...) e la terra costa un quarto?

In questa situazione, in cui i viticoltori rinnovano compatti le cariche ai direttori di cantine e consorzi, che hanno saputo garantire loro un fiume di denaro, in questa situazione, come si fa a parlare di crisi? E se è vero, come è vero, che le varie realtà litigano tra loro in maniera furibonda, al punto da aver distrutto tutti gli istituti preposti a una comune politica vitivinicola, non siamo solo di fronte a scontri di potere? Tra gente che litiga per spartirsi la grossa torta?

Come vedremo, gli scontri di potere ci sono, e feroci. Ma dietro c’è un dilemma di fondo: quale futuro per il vino trentino. Futuro che, secondo le parole del prof. Scienza, e di tanti altri, non è per niente garantito. Anzi, serpeggia il vago timore di essere destinati a capitolare di fronte all’incombente nemico, la globalizzazione, che ha immesso sul mercato nuovi paesi produttori - Australia, Cile, Argentina, SudAfrica, Nuova Zelanda - che nelle grandi aziende da 200 ettari pianeggianti, impiegano 50 ore lavorative (per di più poco pagate) per coltivare un ettaro di terreno, mentre da noi, con le nostre piccolissime aziende, in terreni sfavorevoli, occorrono dalle 400 alle 600 ore.

In questa situazione due sono le risposte.

Disegno di Stefano Devigili.

I giganti della vitienologia trentina - Cavit e Cantina di MezzaCorona - rispondono con la quantità: siamo bravi, vendiamo il vino trentino nei supermercati di tutto il mondo, se non abbiamo laccioli tra i piedi possiamo competere con tutti.

I piccoli produttori (o anche meno piccoli, come le Cantine Ferrari) puntano invece sulla qualità: è il prodotto di nicchia, venduto nelle enoteche, in grado di dare sensazioni particolari ed essere pagato corrispondentemente, a poter reggere la concorrenza.

Tra le due ipotesi c’è stata la guerra. O meglio, una guerriglia, lunga e cattiva, che ha lasciato sul terreno le stesse istituzioni preposte a governare il settore. Il Trentino era additato ad esempio in tutta Italia (eh sì, quante vicende dell’oggi iniziano così...) per avere, fino dal 1949, dato vita a un Comitato Vitivinicolo, poi Istituto Trentino del Vino (Itv), in cui, sulla falsariga dei comitati interprofessionali francesi, tutti gli operatori del settore contribuivano a definire tale politica. Proprio in questi giorni, mentre nelle altre parti d’Italia si stanno aprendo analoghe istituzioni, da noi l’Itv lo si chiude.

"Perché? - si chiede, retoricamente, Mauro Lunelli delle Cantine Ferrari - Nessuno lo ha ancora spiegato."

Sta di fatto che con un blitz, l’anno scorso, le due grandi cooperative (Cavit e MezzaCorona) avevano dato vita a una nuova associazione, la Trentino Vini, in cui - a differenza dell’Itv, in cui convivevano tutti i molteplici soggetti - erano presenti solo le coop e qualche piccola cantina privata; ma era proprio la neonata associazione a venir prontamente riconosciuta come interlocutrice fondamentale dall’assessore provinciale Pallaoro.

Oggi anche Trentino Vini sembra arrivata al capolinea, senza mai essere veramente partita: i piccoli produttori di alta qualità (innanzitutto Pojer della nota cantina Pojer e Sandri) se ne sono andati, e l’associazione si è trovata a non poter proprio più gestire - se mai avesse potuto farlo prima - i propri compiti che, per legge, devono essere svolti da un organismo comprendente tutti i soggetti.

Si tratta infatti di stabilire (e controllare) le norme di "tutela", cioè le rese per ettaro, i disciplinari di produzione, le denominazioni, le zonizzazioni..., insomma tutto quanto definisce la produzione, crea l’immagine e il nome di un’area produttiva (nel nostro caso il Trentino). Ed è chiaro che a stabilire tutto questo non può essere solo una categoria di operatori - nel nostro caso le cooperative - ma l’insieme di essi, cioè consorzi, cantine private, industriali, imbottigliatori, ecc.

Abortita la Trentino Vini, si è dato vita a un Consorzio volontario che dovrebbe raggruppare tutti questi operatori, e al quale la legge affida la famosa tutela. Ma anche il Consorzio stenta ad avviarsi: per ora è sì ufficialmente nato, ma è tutt’altro che operativo.

E così il Trentino vitivinicolo è senza guida.

Il tutto è aggravato dal fatto che l’Istituto del Vino, oltre la tutela, gestiva la promozione del vino trentino, inteso come immagine complessiva: organizzando l’annuale Mostra del Vino, la partecipazione del Trentino a Vinitaly, tenendo aperto il Punto Trentino a Monaco, e poi corrispondenti all’estero, edizioni, pubbliche relazioni e quant’altro. Ora che l’Itv è liquidato, chi si fa carico di tutto questo?

I vari aspetti si intrecciano. I vini trentini sono raccolti sotto due marchi, Trentino Doc (20 vini) e Trento Doc (gli spumanti classici). La promozione dovrebbe sedimentare nel consumatore l’idea che un vino che si fregia di uno di questi marchi, sia di qualità. "Il vino è un piacere, e la consapevolezza di esso è un prodotto culturale - ci dice Lunelli - Il punto è far capire che sotto il marchio c’è tutela, c’è qualità, c’è cura del territorio."

I due marchi in realtà non sono decollati. Forse perchè sono cose che sedimentano nel lungo periodo. Ma anche perché i nostri grandi produttori hanno altre esigenze. "E’ un meccanismo che va avanti con una propria logica, quella di dover crescere continuamente: più investimenti, più produzione in una spirale senza fine - sostiene il prof. Scienza - E allora il Trentino diventa troppo piccolo: e si importano vini da fuori provincia. E diventa poco importante: se si vende in un supermercato di New York, la parola Trentino conta zero."

Le due linee, qualità e quantità, potrebbero trovare una convivenza. Come del resto succede in tante altre parti, dove accanto alla produzione eccelsa c’è anche quella media, come è peraltro ovvio.

Le soluzioni potrebbero essere di due tipi. La prima è la costruzione della cosidetta "piramide": la classificazione della produzione in base a qualità via via crescente. Si tratterebbe quindi di porre, sopra l’attuale Doc, un gradino superiore, la Docg (Denominazione d’Origine Controllata e Garantita), con disciplinari più severi, rese per ettaro inferiori, insomma regole molto più restrittive, che assicurino una qualità più elevata.

L’altra soluzione, che non esclude la prima, è quella di individuare delle "sottozone", delle aree particolarmente vocate, che producono uve di qualità, poi lavorate anche qui con criteri rigorosi: si arriverebbe a produrre vini particolari, riconosciuti dalle riviste specializzate e commercializzati con etichette indicanti anche la sottozona, cosa che notoriamente indica vino di pregio.

"Sono proprio i vini di pregio a fornire l’immagine del territorio. E poi quindi a trainare la stessa grande produzione" - afferma Scienza.

Però i fatti sono sempre andati diversamente. Da anni si parla di costruire la piramide, e mai si è fatto nulla; in questi giorni si è riproposto la Docg, ma è subito arrivato il niet di MezzaCorona; ci si è messi timidamente ad avanzare idee per le sottozone, ma con scarse speranze.

Il fatto è che i colossi vogliono non solo produrre tanto, vogliono "contare".

Oltre alle strategie economiche, su cui si potrebbe trovare un punto d’incontro, ci sono anche le ambizioni di egemonia "politica": queste grandi organizzazioni, vogliono essere il punto di riferimento principale se non esclusivo, avere (o meglio, continuare ad avere) rapporti diretti, strettissimi con il Palazzo, condizionandone gli uomini e le scelte. In quest’ottica viene visto come fumo negli occhi il passaggio dalla situazione attuale ad una in cui l’elemento trainante non sarebbe più il grande produttore, bensì la pluralità di produttori, magari piccolissimi, ma di qualità.

Ed ecco allora spiegarsi perché il sistema, in questi anni, non si evolve, la strada della differenziazione della produzione (intesa come tutela, marchi, promozione) non si riesce mai ad imboccarla. Anche a costo di spaccare tutto.

Eppure differenziare la produzione, e anche la politica vitivinicola, non dovrebbe essere un’utopia. In fin dei conti la stessa Cavit opera al proprio interno una, sia pur timida e residuale, differenziazione di prodotti. E soprattutto la Cantina cooperativa La Vis (terza in ordine di grandezza) affianca a una produzione di massa, una di qualità, dopo un massiccio investimento e sul territorio (in studi, zonizzazioni, rapporti con gli agricoltori) e nelle linee produttive e nella promozione (rapporti con il turismo, la cultura ecc).

Ma la stessa Cantina MezzaCorona risulta penalizzata dalla propria politica: "Diciamocelo chiaro, i vini MezzaCorona sono effettivamente di qualità medio-alta - ci dice un operatore - Solo che a livello nazionale, tra tutti gli operatori, MezzaCorona è nota per le sue strenue battaglie pro-quantità (per le altissime rese per ettaro ecc) e questo costituisce un pre-giudizio fortissimo, che penalizza la valutazione, e quindi l’immagine, dei suoi vini."

Aquesto punto comunque la situazione pare incancrenita. Anche per una serie di risentimenti personali tra individui che litigano da venti-trent’anni: basti pensare che l’unica spiegazione che ci viene data per la liquidazione dell’Istituto del Vino è che ci si voleva liberare del suo direttore, Angelo Rossi, ritenuto troppo autonomo e ingombrante (come se per licenziare un direttore non bastasse risolvere un contratto di lavoro, invece che distruggere un’istituzione).

Insomma, la palla ora dovrebbe passare alla politica. "Se ci fosse anche da noi Durnwalder! Risolverebbe tutto in due giorni..." - ci sentiamo dire.

Ma da noi Durnwalder non c’è, la politica è debole. Ma, finalmente, non assente.

L’assessore Andreolli (sua la competenza per la promozione del vino trentino) ha iniziato a minacciare: "Se non vi mettete d’accordo, niente soldi per la promozione nel 2001", anche perché non è più chiaro, con l’estinzione dell’Itv, chi dovrebbe occuparsi della promozione.

Le coop non si sono spaventate, anzi MezzaCorona ha rilanciato: "Andreolli dice che dovremmo pagare il 50% delle spese di promozione? Di più, siamo disposti a pagare il 70%; purché si passi dalle campagne generali alla promozione aziendale" . Cioè, la Provincia finanzi la nostra pubblicità, e mandi a quel paese la promozione del territorio, dei marchi Trento Doc, ecc.

La giunta Dellai, nel terreno dei rapporti con il potente movimento cooperativo, si muove con difficoltà (ricordiamo la pronta, entusiastica assicurazione di contributi miliardari - "la Provincia farà la sua parte!" - dello stesso Dellai, all’atto della presentazione del progetto della nuova, bellissima sede di MezzaCorona).

E l’assessore all’agricoltura, competente cioè sulla tutela, Pallaoro, sembra subire la situazione.

Non così Andreolli. "Dobbiamo prendere atto che un ciclo è finito, il modello su cui era costruito l’Itv - ci dice - Ora si tratta di andare avanti. La Provincia metterà a disposizione le proprie risorse solo se ci sarà un nuovo modello, che però dovrà essere indicato, concordemente, dall’insieme degli operatori."

Basterà il taglio dei contributi alla promozione? E’ una minaccia seria? E se si passasse a ridurre i millanta contributi alla produzione?

Certo, il settore, come abbiamo visto, è nel caos. Un intervento - imparziale ma deciso - di un ente pubblico che per ora sgancia solo soldi, è forse a questo punto doveroso.