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In che brutto mondo viviamo

Il football, un esercizio sportivo di gruppo, bello da giocare e da vedere, che racchiude il ricordo delle ore più belle della nostra età giovanile, che cova la magia di trasferire l’intelligenza perfino nei piedi, ha generato il mostro del tifo guerriero.

Un branco di tifosi, dopo una partita di calcio, invade un treno e lo trasforma in una bolgia. Ad ogni fermata nelle varie stazioni del tragitto, gli scalmanati lanciano sassi e picchiano senza ragione chi trovano. Ubriachi, drogati, forse solo esasperati per la retrocessione della loro squadra, sfogano l’ira con immotivate violenze e giungono ad incendiare una carrozza dentro una galleria tentando anche di arrestare il convoglio nel tunnel per rendere catastrofiche le conseguenze del rogo. Cosa c’è di umano, di razionale in tale comportamento? Cosa c’è che affiora e si impone in questa psicologia di gruppo e che trasforma persone normali in violenti sfrenati? Quale può essere lo scopo perseguito: la distruzione purchessia, la morte di chi ti sta accanto solo perché è lì a portata di mano, il suicidio collettivo? Psicologi e sociologi formulano ipotesi, non danno risposte. Né è appagante la tesi di chi suppone che lo abbiano fatto per sottrarsi alla cattura perché individuati come autori dei precedenti minori delitti, talmente è enorme il divario tra il danno temuto ed il mezzo usato per evitarlo. Ma se questa è la motivazione vera siamo innanzi ad un modello di comportamento niente affatto singolare.

Quale obiettivo possono ragionevolmente proporsi gli efferati assassini di Massimo D’Antona? Mi sembra assai futile se siano o meno gli eredi delle brigate rosse degli anni 70/80, addirittura scandaloso interpellare sull’argomento i reduci di quella triste stagione. E banalmente sciocca mi sembra l’opinione di Bertinotti che l’analisi sociale contenuta nel documento di rivendicazione sia condivisibile, ma il leader di Rifondazione è così narciso che, pur di appagare il suo vanitoso bisogno di distinguersi sempre, è disposto anche a correre il rischio del ridicolo. Giacché il problema vero che sorge da questo doloroso episodio è capire come sia stato possibile che esseri umani, mossi da sentimenti di pace e di giustizia sociale, dotati di buona attitudine ad usare gli strumenti della logica, abbiano concepito il progetto di raggiungere gli scopi dichiarati usando il mezzo dell’assassinio di Massimo D’Antona. C’è davvero qualcuno, dotato di normali capacità intellettive, che possa supporre che la vile uccisione del consulente di Bassolino possa in qualche modo avvicinare la fine della guerra in Jugoslavia? O che essa abbia una qualche efficacia causale nel risanare la piaga della disoccupazione? O che possa suscitare intorno ai suoi autori un tale entusiasmo di adesioni da creare una crisi rivoluzionaria del sistema? Se non c’è lo zampino di qualche servizio segreto, anche in questo caso vi è un divario abissale fra il criminale mezzo usato e i nobili fini che si dichiara di voler perseguire.

Esattamente come nell’aggressione aerea della Nato contro la Serbia. Il fine umanitario di impedire i crimini di Milosevic è perseguito con mezzi che in realtà producono effetti contrari a quelli voluti, e che corrispondono in modo impressionante a comportamenti che sono definiti crimini di guerra dallo statuto della Corte Penale Internazionale approvato il 17 luglio a Roma da 120 Stati, compresa la nostra Repubblica ed esclusi, per il vero, gli Stati Uniti.

Comportamenti tutti, a diversi livelli nella gerarchia sociale e con sfere di influenza molto differenziate, che però hanno in comune un deficit totale di razionalità sul punto essenziale del rapporto causale fra i fini dichiarati e i mezzi usati per raggiungerli. La masnada dei ribaldi salernitani scelgono un mezzo criminoso smisurato rispetto allo scopo di assicurarsi l’impunità per minori delitti. I criminali che uccidono D’Antona ricorrono ad un mezzo che è tanto moralmente ripugnante quanto inidoneo a realizzare gli scopi proclamati. Gli strateghi della Nato usano interventi che eccedono i limiti della legalità internazionale e che sono inefficienti a neutralizzare Milosevic e ad interdire i suoi crimini.

Sembra di assistere ad una sorta di epidemia virale che abbia colpito l’attitudine dell’uomo a controllare le sue azioni per adeguarle a una legge, inderogabile come la forza di gravità, vale a dire la legge del nesso di casualità. Ma il virus è il sintomo di una degenerazione etica. Urge mobilitare gli anticorpi, a tutti i livelli.

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