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Il disastro russo

Da “L’altrapagina”, mensile di Città di Castello (Perugia)

Luigi Sandri

Dove va la Russia? E’ davvero difficile rispondere a questa domanda, eppure - coscienti della complessità del problema e di una situazione in continuo movimento - è in qualche modo necessario. Perché il futuro del più vasto paese della terra (17 milioni di chilometri quadrati di superficie, cioè 56 Italie) riguarda anche noi italiani. Riguarda il mondo intero.

"Come sarà questo paese la prossima volta che ci vediamo?" E’ l’ultimo angosciante interrogativo che, poche settimane fa, mi pongono Olga e Nikolaj, mentre mi salutano in partenza per l’Italia, all’aeroporto di San Pietroburgo. Dopo tanti nostri discorsi sul passato, sul presente e sul futuro del loro paese, sui massimi sistemi e sui piccoli grandi problemi della vita quotidiana, ci sembrava di aver raggiunto un punto fermo, un approdo. Ma quella domanda, innescata da una realtà incombente, contraddittoria e lacerante, rimetteva tutto in discussione. Ovviamente non citerei questa piccola storia se essa non travalicasse la sfera privata per diventare quasi lo specchio di una domanda immensa, appunto, che sale da milioni di persone in tutta la Russia: "Dove va questo paese?"

Per valutare il contesto in cui vanno inquadrati, per essere adeguatamente valutati, i fatti più recenti, iniziati a metà agosto con la svalutazione del rublo, e via via seguiti dalla defenestrazione del governo guidato da Viktor Chernomyrdin, dalla radicale contrapposizione tra il presidente Boris Eltsin e la Duma (Camera bassa del Parlamento, che chiede l’impeachment del capo del Cremlino) e dalla scelta come nuovo premier di Evghenij Primakov, occorre fare un passo indietro.

Tre furono i grandi problemi che all’alba degli anni Novanta dovette affrontare l’allora presidente sovietico, e segretario generale del Pcus, Mikhail Gorbaciov: la riforma del Trattato dell’Unione (il patto - nato nel 1922 - che fondava l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, infine formate da quindici paesi), la riforma politica (con l’avvio di un germe di multipartitismo), la riforma economica. Il nuovo trattato doveva in sostanza riaffermare l’unicità dell’Urss come paese e, nel contempo, garantire davvero la identità nazionale delle singole repubbliche componenti l’Urss. La riforma politica doveva salvaguardare il ruolo guida del Partito Comunista, ma anche aprire squarci di presenza per altri partiti. Infine, la riforma economica doveva aprire un varco nella rigida centralizzazione, contemperando dunque la proprietà statale per i grandi mezzi di produzione con la proprietà privata per una parte dei beni del Paese. Risolvere i tre problemi - distinti ma intrecciati - era quasi la quadratura del cerchio.

L’opposizione della "nomenklatura" a queste tre ventilate riforme fu la vera causa del golpe del ’91. Per quanto fallito, il putsch diede un colpo mortale a Gorbaciov e avviò in realtà la dissoluzione dell’Urss che i golpisti (i vertici del Kgb e dell’Armata rossa) volevano evitare.

Nel dicembre successivo Eltsin guida la pattuglia che porta alla fine dell’Urss. Infine il 25 dicembre Gorbaciov si dimette da Presidente sovietico, e il primo gennaio ’92 nella Russia (la più importante delle Repubbliche che formavano l’Urss) parte l’economia di mercato. Cioè, finisce ufficialmente il socialismo e inizia ufficialmente il capitalismo.

Non è questa la sede per valutare il "socialismo reale" che ha regnato a Mosca per quasi sessant’anni, ricordare i suoi aspetti positivi, le sue contraddizioni, i suoi fallimenti e le sue tragedie (stalinismo e non solo): esistono, in proposito, intere biblioteche!

Senza dare giudizi di merito, dunque, è utile però vedere come avvenne il passaggio dal socialismo al capitalismo. A ciascun cittadino russo furono dati una specie di voucher che rappresentavano un titolo di proprietà sui beni dello Stato. Quindi in teoria le ricchezze comuni erano spartite equamente. Di fatto, le cose andarono diversamente. Mentre la maggior parte della gente si arrangiava a vivere, gruppi ristretti - singolare intreccio di burocrazia, nomenklatura e mafia - si impossessarono della maggior parte dei beni dello Stato o, comunque, misero le mani sulle fonti energetiche (gas e petrolio), sulle miniere, sulle produzioni più importanti, perfino sugli armamenti nucleari. In questo contesto nasce una fortissima tensione tra il Soviet supremo (parlamento) eletto in epoca sovietica, e Eltsin, presidente eletto dal popolo nel ’91.

Infine (ottobre ’93) Eltsin fa bombardare la sede del Parlamento e nel dicembre successivo sottopone a referendum la nuova Costituzione del paese che viene approvata. Questa "Carta", fatta su misura da Eltsin per Eltsin, dà al presidente russo poteri quali non ha nessun altro presidente di nessun paese occidentale (Usa e Francia in testa). Ma nelle elezioni, stavolta davvero libere, del 1995, il partito comunista russo ottiene la maggioranza relativa dei voti. Comincia così un ricorrente braccio di ferro tra Eltsin (rieletto nel ’96) ed i comunisti, ambedue forti del mandato del popolo. Ma con i poteri che ha, è il presidente ad avere in mano tutte le leve più importanti. Lui, dunque, è il responsabile vero dell’andamento del paese e delle sue scelte di fondo.

Quando, nell’agosto scorso, con gran fragore è scoppiata la crisi russa, prima timidamente, poi a ritmo crescente, il tam-tam occidentale (mass-media e diplomazia) ha iniziato a gridare "Il re è nudo!" Il re, naturalmente, era Eltsin. E la nudità riguardava una politica di cui, improvvisamente, si notavano enormi contraddizioni, macchie, buchi. Si notava, ad esempio, che le riforme eltsiniane avevano creato un piccolo zoccolo di super-ricchi, e una enorme palude di super-poveri. Ci si accorgeva che le disparità sociali create nel ’92 avevano ormai portato il paese sull’orlo dello sfacelo e della deflagrazione sociale. Si ammetteva che lo schema usato per capire la "nuova" Russia - gli anticomunisti tutti bravi, onesti, competenti e soprattutto "liberal"; i comunisti stalinisti, mafiosi, incapaci, antidemocratici - non dava conto della realtà. Una realtà molto più complessa.

Osservazioni corrette, ma che rinviano ad un’altra domanda: dov’era l’Occidente dal ’92 al ’98, cioè negli anni del trionfo di Eltsin e dell’impianto del capitalismo in Russia? Chi non fosse stato cieco, già da anni avrebbe potuto constatare che la "nuova" Russia - foraggiata dall’Occidente - nasceva come un mostro. Paese non più socialista, ma con i quadri dirigenti in gran parte impersonati da ex comunisti (del resto, come poteva essere diversamente? Lo stesso Eltsin non ha fatto carriera nel Pcus per ben 31 anni prima di uscirne?) Paese capitalista, ma con le ricchezze in mano ad un’oligarchia (ex comunista ed ora anticomunista), avida e astuta, che ornandosi della magica parola "liberal" ha pensato - benedetta dall’Occidente - agli affari propri, abbandonando il grosso della gente al suo destino. In questo clima, e mentre la sua saluta sta pericolosamente declinando, zar Boris è stato costretto a nominare premier Primakov. Persona capace e abile, ma con una pecca imperdonabile, dice la grande stampa italiana: aver fatto carriera nel Pcus (perché, il premier Chernomyrdin non aveva fatto analogo cammino?).

Il problema del nuovo premier non è dunque il suo passato, ma la drammaticità del presente della Russia e le sue tragiche contraddizioni.

Potrà farcela? Alcuni dati, diffusi a Mosca a metà ottobre - fanno rizzare i capelli. Mentre, secondo calcoli del Fondo Monetario Internazionale, nel ’90 solo l’1,5% dei russi poteva essere considerato povero, ora è il 40% della popolazione. Prima della crisi dell’agosto del ’98 lo stipendio medio mensile equivaleva a 190 dollari Usa, mentre adesso è di 60. E la pensione sociale minima, che allora equivaleva a 60 dollari, ora è scesa a 25. Fino a metà agosto, un dollaro costava 6,2 rubli (un rublo equivale a circa 300 lire); poi il suo prezzo è salito fino a 18 rubli. Adesso il prezzo della moneta verde è ridisceso un poco, ma in ogni momento può impennarsi.

Ora, bisogna sapere che nella "nuova" Russia post-comunista, ben pochi sono i prodotti a prezzi bassi. Il costo della vita è sostanzialmente come in Italia. Adesso, dunque, in questo paese almeno 70 milioni di persone (la popolazione complessiva è di 157 milioni) ha uno stipendio di centomila lire al mese. Accanto ad un gruppo ristretto di re Mida, e di un’altra cerchia di gente che sta relativamente bene, vi è un esercito crescente di affamati. Questi ultimi vivono (o meglio, sopravvivono) come possono: con doppi e tripli lavori, con una vita austerissima - una pentola di patate per una settimana - con sacrifici enormi. E, certo, non possono non dilagare corruzione, mafia, prostituzione, droga.

La Russia ha saputo superare infiniti drammi; risorgerà certo anche dall’attuale Venerdì santo. Ma quando? A quale prezzo? Queste domande riguardano anche noi.