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QT n. 2, 23 gennaio 1999 Servizi

Più polizia e più carceri? Un’illusione

Da Milano al Trentino, i problemi di ordine pubblico. Repressione? Sì, ma non basta. L’importanza della prevenzione: e non sono parole...

"A Milano assistiamo a un fenomeno che non ha nulla a che fare coll’aumento della criminalità. E il prossimo passo potrebbe essere l’esplosione di manifestazioni di xenofobia".

Il prof. Ernesto Ugo Savona, docente al Dipartimento di Scienze Giuridiche a Trento e direttore di Transcrime, non ha dubbi in proposito: da una decina d’anni il numero dei reati, in quella città, è sostanzialmente stabile; e a chi ritiene che la soluzione possa essere una maggiore presenza delle forze dell’ordine, viene fatto notare che l’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di poliziotti in rapporto alla popolazione. E dunque, una scelta del genere non serve tanto a risolvere il problema, quanto a sopire un senso di insicurezza che spesso prescinde dai dati reali. Quello stesso sentimento che abbiamo visto sorgere anche in Trentino, quando parlando di Trento e di Rovereto qualcuno ha fatto degli improbabili paragoni con Chicago e col Bronx. Rimane, certo, il fatto che la paura, anche se immotivata, va comunque tenuta presente (e in proposito ci sarebbe molto da dire sui comportamenti dei mezzi di informazione, oltre che sulle strumentalizzazioni politiche), ma in questa sede atteniamoci ai fatti e i fatti, per quanto riguarda il Trentino, sono quelli evidenziati dai dati sulla criminalità nel corso del ’98 diffusi nei giorni scorsi, che vedono appunto una situazione sostanzialmente stabile: per quanto riguarda i reati più comuni, quelli su cui è possibile fare considerazioni di tipo statistico, si è avuto un lieve aumento di scippi, borseggi e furti su auto in sosta, un’altrettanto lieve diminuzione dei furti in negozi e appartamenti, nonché delle rapine e delle truffe. E per finire, il dato confortante di un aumento consistente nel numero di reati di cui si è scoperto l’autore.

Il problema è che il senso di insicurezza che provoca le ricorrenti proteste dei cittadini in questa o quella città italiana, si disinteressa delle ragioni di fondo di quanto accade e si occupa solo dei sintomi, pretendendo inutilmente di rimuoverli tramite una risposta puramente repressiva che da sola non potrà risolvere nulla. Alessandro Margara, direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, arriva a parlare di "una sorta di pulizia etnica contro tutti gli irregolari, che non sono solo i rapinatori, ma anche i lavavetri, chi fa le scritte sui muri, ecc. A Milano, del resto, si è già su questa strada: negli ultimi anni i detenuti crescono a un ritmo di mille l’anno e ogni mese 200 di loro vengono trasferiti in carceri di altre città, perché S. Vittore (1.600 detenuti) e Opera (1.000) sono già pieni".

Repressione, certo, ma anche prevenzione, poiché le due cose non sono assolutamente alternative. Savona ammonisce che se non si interviene su questo punto la situazione rischia sì di andare fuori controllo: in tutte le proteste causate da una vera o presunta ingovernabilità del territorio spunta regolarmente la figura dell’immigrato, ed in effetti la condizione di tanti cittadini stranieri è tale da indurli all’illegalità. Ma il problema, allora, più che la presenza degli extracomunitari, è l’impreparazione della nostra società ad un fenomeno ormai non più nuovo. E se già adesso a tanti italiani le nostre città appaiono invivibili, si pensi a questo dato di fatto evidenziato da tutte le ricerche in materia: nei paesi europei la criminalità ad opera degli immigrati di seconda generazione è superiore a quella dei loro padri. Unica eccezione la Svezia, dove sono state svolte delle politiche razionali di integrazione che si sono dimostrate un intelligente investimento, sul piano economico come della tranquillità sociale, con minore criminalità e minori tensioni inter-etniche.

E proprio in quest’ottica il prof. Savona abbozza un progetto di "mediazione integrata" che, utilizzando servizi e strutture già esistenti e limitandosi a valorizzarle e riorganizzarle, si propone di sostenere in maniera coordinata l’integrazione dei cittadini stranieri nei diversi momenti del vivere sociale. Un progetto (se ne parla più diffusamente nell’articolo a pag. 22) che in una provincia tutto sommato tranquilla come la nostra potrebbe trovare l’ambiente ideale. "Qui non siamo a Milano" - dice Savona, che proprio per quel Comune aveva approntato un piano che andava in quella direzione e che poi è finito nel cassetto. L’alternativa la stiamo vedendo in questi giorni: azioni dimostrative delle forze dell’ordine, che dureranno fin quando gli animi dei residenti si placheranno.

Dalla necessità di favorire l’integrazione degli immigrati, passiamo ora ad una integrazione di tipo diverso, quella rivolta ai detenuti, stranieri o italiani che siano. Proprio questo, d’altronde, era l’argomento al centro di un incontro pubblico tenutosi qualche giorno fa a Trento che intendeva fare un primo bilancio dei risultati del Protocollo d’intesa siglato nel novembre del’93 fra la Provincia di Trento e il Ministero di Grazia e Giustizia: un accordo grazie al quale ci si proponeva di intervenire in maniera programmata e coordinata su una lunga serie di temi: la territorializzazione della pena (il detenuto sconti la pena vicino a casa), l’assistenza sanitaria, l’animazione culturale, ricreativa e sportiva, la formazione professionale e l’inserimento lavorativo, la formazione degli operatori e dei volontari, i trattamenti alternativi alla detenzione, l’assistenza post-penitenziaria, l’assistenza alle famiglie bisognose dei detenuti e alle vittime dei reati, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, e infine il trattamento dei minori sottoposti a misure penali.

Non che su tutte queste cose, fino ad allora, non si sia fatto niente, ma si trattava per lo più di interventi sporadici, senza prospettive di sviluppo, effettuati grazie alla buona volontà di qualcuno, come il concerto in carcere del famoso cantante organizzato dal direttore o l’inserimento lavorativo di detenuti in semi-libertà e di ex carcerati ottenuto grazie all’interessamento di una associazione del privato sociale.

Dopo la firma di quel documento, ci sono voluti più di due anni per arrivare alla creazione di una Commissione provinciale per i problemi della devianza e della criminalità, che a sua volta si è suddivisa in due sottocommissioni, dedicate rispettivamente agli adulti e ai minori.

Cosa è cambiato da allora? Gli interventi dei relatori e del pubblico, composto da addetti ai lavori, non hanno tracciato un quadro molto positivo. Tralasciando in questa sede il discorso sulla giustizia minorile (dove è stato avviato una positiva sperimentazione di "mediazione penale" che nei casi di piccoli reati mette a confronto il reo e la vittima in vista di una giustizia "riparatoria"), per i "normali" carcerati non è cambiato granché. Si sono svolti alcuni corsi di formazione per detenuti (di informatica e per piastrellisti), ma al termine i partecipanti si ritrovano in mano una semplice attestazione di frequenza, non un diploma, perché i corsi sono troppo brevi.

D’altronde, è la stessa tipologia dei possibili utenti che rende difficili dei risultati in questo campo, come pure in quello dell’animazione culturale: a Trento come a Rovereto, la popolazione carceraria è composta in larga misura o da persone in attesa di giudizio (il 35% circa) che solitamente fanno una vita a parte e che poi, appena liberati o condannati, se ne vanno; o da cittadini stranieri (45%) molto difficili da coinvolgere, o infine da ospiti "abituali", emarginati ai quali è pressoché impossibile proporre un percorso di reinserimento sociale. Si ricordi poi che quelli di Trento e Rovereto non sono penitenziari, ma case circondariali, riservate cioè a chi abbia da scontare pene brevi: da qui un continuo turn-over di ospiti che complica ulteriormente le cose.

Nessuna novità neppure sul piano dell’inserimento lavorativo: per i "normali" detenuti, soprattutto a Trento, non c’è proprio lo spazio fisico, all’interno del carcere, per poter svolgere qualche attività che vada oltre i lavori domestici. Quanto a chi gode della semilibertà e a chi è appena stato liberato, si prosegue con i ritmi di sempre: l’inserimento lavorativo avviene soprattutto all’interno di un mercato del lavoro "protetto", cioè in cooperative di solidarietà sociale, mentre nelle vere aziende, malgrado gli incentivi riservati a chi dia lavoro a queste persone, le assunzioni sono rarissime; non tanto perché i datori di lavoro siano prevenuti, ma perché gli aspiranti al posto mancano della necessaria qualificazione (che il carcere - come abbiamo visto - non è in grado di dargli).

Particolarmente pesante rimane poi il problema dei detenuti stranieri: privi di una residenza, senza una famiglia, a volte - per loro volontà - privi persino di una identità, sono esclusi (in pratica, se non in teoria) da tutti i benefici previsti dalla legge, a cominciare dalla detenzione domiciliare fino a quel po’ di lavoro che si può fare in carcere: perché chi è senza un nome non può avere un codice fiscale, e dunque non può fare nessun lavoro.

Un altro tema fin qui trascurato è quello della sensibilizzazione, al punto che un relatore, per dimostrare che qualcosa si sta facendo, ha spacciato il convegno come un momento di sensibilizzazione per la cittadinanza, visto che era aperto al pubblico... Più concretamente positivi i dépliant presentati nell’occasione, che trattano in maniera chiara e sintetica i vari aspetti della questione carceraria.

Una nota positiva c’è però stata: l’avvenuta effettuazione di corsi di formazione rivolti agli operatori del settore, dove personale penitenziario, assistenti sociali, cooperative e volontari si sono finalmente trovati assieme in incontri molto partecipati che hanno permesso loro di acquisire competenze utili per operare meglio fin da oggi, ma ancor più quando alcuni degli ostacoli attualmente presenti saranno rimossi.

E qui il discorso ritorna sulle strutture, soprattutto sul carcere di Trento, a proposito del quale da anni si sprecano gli aggettivi per definirne la vetustà e l’inadeguatezza: "E’ un problema di mancanza di spazi - dice un operatore - che rende impossibile qualunque attività. Ma anche un’atmosfera che influisce sul comportamento stesso delle guardie, che si sentono costantemente sotto pressione e quindi anche meno disponibili nei confronti dei detenuti".

Da questo punto di vista, ora, con l’accordo fra Comune, Provincia e Ministero, la prospettiva del nuovo carcere, previsto sull’area della caserma "Bresciani", appare meno lontana.

E si spera che nel costruirlo si tenga conto delle necessità richieste da quella concezione più umana del carcere che tutti dicono di sostenere e che permetterebbe al famoso Protocollo di funzionare un po’ meglio.