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QT n. 19, 7 novembre 1998 Servizi

Gli yesmen e l’accanimento terapeutico

C'è modo e modo di fare il vescovo. A Trento, ad esempio...

Pur portato ad ampie riserve mentali sulla saggezza popolare (memore quanto meno dell'ironia manzoniana sulla vox populi,), ritengo possa tornare utile qualche volta prendere spunto anche da questa fonte. E la saggezza popolare ama ripetere che "morto un papa se ne fa un altro", e, chiosando, "morto un vescovo se ne fa un altro". Non a caso, archiviata la morte di monsignor Sartori, l'attenzione è passata subito alle notizie su chi gli succederà a occupare il 121° posto sulla cattedra di San Vigilio.

Ma il detto popolare induce quantomeno a riflettere su quanto certi ruoli sociali riescano ad assorbire in sé fino quasi a farla scomparire l'umanità della persona.

Ci sono infatti ruoli sociali facilmente sostituibili, mentre altri lo sono con assai maggiori difficoltà e altri infine risultano semplicemente insostituibili.

E' evidente che i primi (quelli facilmente e istituzionalmente sostituibili) costituiscono un ambito in cui i rapporti affettivi sono minimi, quando non inesistenti, e di conseguenza, al venir meno della persona che li ricopre, non lasciano dietro di sé né molti strascichi di rimpianto né vuoti inconsolabili. A meno che la "persona " sia riuscita a non farsi assorbire dal "ruolo" fino al punto di sacrificare ad esso le proprie doti umane, se ce ne aveva: riuscendo così a relativizzare la portata del ruolo e permettendo agli altri di cogliere quei valori che trascendono il ruolo anche quando l'aura di sacralità tende ad assolutizzarlo.

Non è facile trovare una personalità in grado di uscire dai recinti del sacro in cui certi ruoli tendono a rinchiuderla.

E una delle conseguenze più immediate di queste situazioni è quella di attingere autorità dall'interpretazione del sacro, anziché autorevolezza dalla ricchezza delle doti umane della persona. Ma tutto questo dipende anche dal percorso che ha portato un soggetto a ricoprire ruoli di questo genere.

Non è la stessa cosa se uno diventa vescovo perché ha dimostrato nella sua precedente carriera ecclesiastica una estrema disponibilità all'ossequio verso chi sta sopra di lui e ad eseguirne ordini e interpretarne fedelmente financo i desideri, o se invece uno lo diventa perché gli vengono riconosciute doti di indipendenza personale e di preparazione specifica sia professionale che spirituale. Certo i meccanismi di selezione portano più facilmente a premiare il primo di questi percorsi, ma non necessariamente.

L'interpretazione del ruolo e il percorso portano poi con sé una serie di conseguenze che selezionano inevitabilmente anche il personale di collaboratori che costituiscono l'entourage di governo e che caratterizzano il modo stesso del governare.

Uno abituato a dire sempre di sì a chi sta in alto sopra di lui, interpretando magari questo atteggiamento come ossequio di fede dovuto a un'autorità che viene da Dio, esigerà altrettanto ossequio da chi sta sottoposto gerarchicamente a sé. E in base a questo criterio selezionerà i collaboratori tra coloro che in inglese si definiscono gli yesmen (che nel nostro linguaggio potrebbe tradursi in "signorsì"), esecutori cioè fedeli e interpreti ligi dei suoi desiderata.

Chi invece più e prima che all'autorità è stato abituato a far ricorso all'autorevolezza, avendo esercitato con spirito critico anche il proprio rapporto gerarchico sia verso l'alto che verso il basso, cercherà di circondarsi di personalità che non rinunciano al proprio apporto originale anche critico e preferirà i referenti critici a quelli più portati all'ossequio cortigiano.

L'entourage di governo di questo secondo tipo in genere risulta assai meno attaccato al posto di potere a cui è stato chiamato, proprio perché di solito non è venuto alla luce grazie a questa chiamata.

I signorsì invece sono portati ad eternarsi nel posto di potere che ricoprono per non correre il rischio di ritornare nel nulla o nella relativa insignificanza da cui troppo spesso provengono.

Le vicende che hanno accompagnato la fase terminale della vita, e la morte di monsignor Sartori, di cui ci siamo occupati nello scorso numero, ci sembrano quasi paradigmatiche a proposito di quanto veniamo dicendo. Non a caso più d'uno ha richiamato precedenti illustri di uomini di governo di sistemi non democratici, in cui vige appunto la logica della cooptazione per meriti di ossequio, tenuti in vita al di là di qualsiasi ragionevole esigenza terapeutica. Gli uomini dell'apparato gerarchico infatti esistono in quanto e fin tanto che esiste chi li ha cooptati. Morto lui, decadono automaticamente anche loro senza garanzie che il successore li individui come adatti ad esercitare quel potere che era stato loro affidato. Ed è singolare che perfino i non abbondanti rapporti affettivi familiari, che però avevano avuto dal ruolo gerarchico del congiunto qualche collocazione che aveva loro permesso di uscire dalla routine di una modesta significanza, abbiano subito la pressione della conservazione ad ogni costo del congiunto vescovo, fino ad affidarlo improvvidamente al potere dei medici e della "scienza", anziché al conforto consapevole di un viatico per l'eternità.

E ci è sembrato significativo, a conferma di quanto siamo venuti dicendo in queste righe, la nota riferita dagli organi d'informazione, dell'accoglienza affettuosa che i fedeli, raccolti in Duomo per le esequie a monsignor Sartori, hanno riservato al suo predecessore monsignor Gottardi. E forse non tanto perché monsignor Gottardi quando era vescovo titolare abbia offerto un'interpretazione del ruolo radicalmente diversa (anche se diversa lo è stata), quanto piuttosto perché ora si presentava nella sua umanità, svestita del ruolo di potere, a pregare per il suo successore che ha finito col precederlo nell'aldilà.

Ma forse anche perché era lì da persona libera dalle pastoie di un apparato che tende alterare i rapporti umani e a impedirne la manifestazione di affetto. Certo che la Chiesa che si dice e a buona ragione "esperta in umanità ", in vicende come queste rischia di veder offuscata questa sua autoaffermazione. Ma rischia anche di non apparire sufficientemente in grado di testimoniare una fede nella risurrezione che sappia affrontare la morte in una società secolarizzata che tende a rimuoverla perché rifiuta la morte. E la rifiuta forse non tanto perché si ripromette di realizzare l'ideale dell'uguaglianza nell'al di qua (a cui ormai nessuno aspira più da tempo se non qualche patetico nostalgico), quanto piuttosto perché non vuole rinunciare a quella acquisita gerarchia di benessere e di potere disugualmente distribuito attinto proprio nell'al di qua e che solo all'ideale francescano liberamente scelto di povertà materiale e spirituale permetterebbe di incontrare "sorella morte " con i cristiani conforti della fede.

Ma forse è solo un episodio della Chiesa tridentina arroccata nella difesa arcigna delle tradizioni (che a ben guardare sono più tradizioni di potere che di fede) e di una presunta ortodossia (a cui finisce col contravvenire addirittura nella prassi di vertice) e di un apparato di uomini caratterizzati dalla modestia nella sua accezione non virtuosa, e da un esercizio del potere scarsamente illuminato. Una Chiesa locale in cui si è instaurata una profonda divisione, in cui le voci scomode sono state emarginate o punite, alla quale è venuto meno un referente politico di garanzia a cui nostalgicamente ha cercato di rifarsi portando avanti la causa di beatificazione di Degasperi con la tenacia e le risorse necessario.

C'è solo da sperare che il futuro riservi uomini e logiche in grado di ridare spazio a quel poco o tanto che il Trentino è in grado di esprimere in materia di vissuto cristiano, che alle radici fa riferimento non per nostalgici rimpianti, ma come alimento per un futuro che sappia confrontarsi con le esigenze di una società radicalmente mutata che ha fatto i conti con la modernità e con quanto essa porta con sé nel bene e nel male. Senza dover costringere lo Spirito Santo a fare gli straordinari per rimediare nei tempi della lunga durata ai guasti provocati da qualche politico impiccione che ha voluto metterci del suo in scelte ecclesiastiche che dovrebbero competere ad altri e seguire altri criteri, o causati da qualche fedele addetto stampa o collaboratore interprete maldestramente scelto che pretende di far passare per volere di Dio e per magistero salvifico opinioni e voleri destinati spesso all'oblio della storia.

Un futuro che rimedi alle divisioni e contrapposizioni in cui la comunità cristiana trentina si trova lacerata, che cancelli le liste di proscrizione e altri tristi retaggi del recente passato, a cominciare dal clima delatorio che rende insinceri i rapporti e difficile perfino lo scambio di pace nella stessa celebrazione liturgica, e che sappia valorizzare e ascoltare una comunità variegata che proprio nella pluralità di posizioni e di modi di vivere la fede esprime vivacità, creatività e capacità di reinterpretare se stessa.