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QT n. 1, gennaio 2009 Cover story

I morsi della crisi

Per tanti è la fine non solo di un reddito sicuro, ma anche di un’esperienza che dava identità, senso del futuro. E per qualcuno vorrà dire dover lasciare l’Italia.

Antonio Rapanà
Manifestazione Cgil

“Cambia la vita, tutto è diverso, in fabbrica e fuori, l’insicurezza ti brucia dentro” ci dice Marco, operaio in Cassa integrazione della ZF. Appunto, come è la vita ai tempi della crisi, in un paese come l’Italia, con un sistema produttivo povero di innovazione e di capacità competitiva, con i salari, dopo il Portogallo, più bassi dell’Unione europea a 15, e con un sistema di interventi contro la disoccupazione assolutamente inadeguato? Come vivono i tanti Marco quando il sistema di ammortizzatori sociali è del tutto insufficiente quantitativamente (vi dedichiamo solo lo 0,5% del PIL, contro una media europea dell’1,8%) e qualitativamente, perché modellato quando il lavoro a tempo indeterminato costituiva il rapporto tipico, ora non offre alcuna copertura ai lavoratori delle tante precarietà che ne avrebbero più bisogno?

E in effetti le prestazioni a sostegno del reddito dei lavoratori si riducono a poca cosa: la cassa integrazione ordinaria in caso di riduzione dell’attività produttiva per cause temporanee, la cassa straordinaria per le ristrutturazioni aziendali, che preludono spesso al licenziamento e, infine, l’indennità nazionale di mobilità in soccorso dei licenziati per riduzione di personale o cessazione dell’attività. Un sollievo da poco: mediamente meno di 800 euro netti al mese per 12 mesi prorogabili a 24 per i lavoratori in cassa e fino a 36 per quelli in mobilità con più di 50 anni. E per di più si tratta di interventi riservati ai lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato di aziende con almeno 15 addetti (50 nel terziario) e che presentano determinati requisiti di anzianità lavorativa. I lavoratori a tempo indeterminato di aziende con meno di 15 addetti, esclusi dalle precedenti prestazioni, possono solo arrangiarsi con gli 800 euro lordi garantiti per un massimo di 12 mesi dalla indennità regionale di mobilità, mentre i precari licenziati magari dopo contratti a termine prorogati per anni non hanno diritto nemmeno a questo: per loro c’è solo l’indennità di disoccupazione per un massimo di 8 mesi, 12 se hanno più di 50 anni, e di importo variabile, a scalare dal 60% al 40% dell’ultima retribuzione, a seconda dell’età e della durata dell’erogazione. Gli apprendisti e i collaboratori spazzati via dalla recessione, infine, semplicemente non hanno diritto a nulla: nemmeno esistono per il sistema degli ammortizzatori sociali. Situazioni drammatiche che non trovano risposta, solo malamente sfiorate dal “pacchetto anticrisi” del governo: un po’ di indennità di disoccupazione in più, per un massimo di 90 giornate, per i lavoratori dipendenti finora esclusi, la mancia dell’una tantum ai collaboratori, pari al 10% del reddito percepito nell’anno precedente, comunque non inferiore a 5.000 euro e non superiore a 13.800. Facile fare i conti: poco più di un’elemosina.

Da noi un po’ meglio, però...

Misure più serie e di maggiore respiro, per fortuna, sono previste in Trentino dal piano di azione della giunta provinciale a favore dei lavoratori che perdono il lavoro a causa di crisi aziendali: interventi di formazione e di sostegno al reddito in modo da garantire complessivamente - per un numero di mesi pari a quelli lavorati nel corso del 2008 - circa 800 euro al mese ai lavoratori a tempo indeterminato licenziati senza diritto all’indennità di mobilità e ai lavoratori a termine non riconfermati, e 600 euro agli apprendisti e ai collaboratori rimasti senza lavoro.

Per ora, comunque, l’emergenza occupazionale produce effetti devastanti anche per chi può alleviare la sospensione o la perdita del lavoro con i trattamenti della cassa o della mobilità: se c’è da pagare la rata del mutuo o l’affitto, si va in rosso già all’inizio del mese: “È un’esperienza durissima, anche se noi, per fortuna, riusciamo a prendere qualcosa di più degli 800 euro netti - mi racconta Giuseppe, operaio della ZF, un’azienda tedesca che nella zona di Arco produce componenti per motoscafi destinati soprattutto al mercato estero - Tutti noi operai siamo in cassa, ma a settimane alternate da agosto: l’emergenza è scoppiata quasi a sorpresa, ai primi segnali della crisi internazionale. È dura: si riesce ad andare avanti se in famiglia si lavora in due, altrimenti ti senti strozzato”.

Dalla conversazione emerge con dignità il peso delle difficoltà quotidiane, dei soldi che non bastano, ma soprattutto dell’ansia per il futuro incerto che incombe: “Ti aggrappi ostinatamente ad ogni briciola di speranza, perché non puoi fare altro” - ci dice Marco. E la speranza è sostenuta anche dal comportamento dell’azienda, descritta come interlocutore serio che non pratica l’usa e getta dei contratti precari, e cerca di non lasciare a casa nessuno, perché la professionalità dei lavoratori è una risorsa importante, ed è impegnata a lanciare nuovi prodotti per agganciare la ripresa, se solo le cose cambieranno nel corso del 2009.

“La cassa continuerà fino ad aprile: è un sacrificio enorme, in qualche modo sopportabile solo se si vede la luce in fondo al tunnel. Ma se la crisi dovesse continuare, l’azienda dovrà prendere decisioni dure e il costo rischia di essere pesantissimo” - conclude Maurizio. In fondo al tunnel può esserci lo spettro della cassa integrazione straordinaria o anche del licenziamento in un mercato del lavoro con prospettive nere.

Convenienti da assumere, facili da licenziare.

Il baratro della perdita del lavoro e del reddito già schiaccia molti precari della Dana di Rovereto e di tante altre aziende: la valanga dell’emergenza occupazionale ha colpito per primi e soprattutto loro, gli sfruttati al quadrato. Dalla sera alla mattina niente proroghe del contratto a termine, con poche speranze di trovare qualcosa d’altro in un mercato gelato dalla recessione e in assenza di qualsiasi ammortizzatore che consenta di respirare almeno per qualche mese. Le loro parole raccontano la rabbia, lo stordimento e l’ansia di chi è stato a lungo usato per essere scaricato appena non serviva più. Convenienti da assumere, facili da licenziare, senza nemmeno tanto rumore sociale: magie della modernità postfordista. “Mi sento ingannato, tradito. - dice Sandro (abbiamo indicato i lavoratori con nomi di fantasia, perché “non si sa mai: quando sei stato bastonato non ti fidi più di niente e di nessuno”.) - In Dana lavoravo da due anni, sempre come precario, prima interinale, poi con 4 contratti a termine, con una pausa in mezzo, lo stop and go, così viene chiamato...mai un giorno di malattia, ho lavorato anche da infortunato, di sabato e domenica quando me lo chiedevano, perché la speranza del rinnovo finisce per essere un ricatto, che ti fa accettare tutto”.

Simile è l’esperienza vissuta dagli altri colleghi: lavoratori flessibili, loro e le loro vite non programmabili, in affitto o a termine, cresciuti di numero nel falso mito della flessibilità “virtuosa”, con contratti che si susseguivano a scadenze sconosciute, sofferte sul filo della speranza del rinnovo o della stabilizzazione: 18 mesi, 2 anni, 3 anni ed anche più. “In azienda - commenta Antonio - tutti, dirigenti, capi e capetti e perfino i delegati sindacali, hanno giocato ad illuderci con continue promesse. Ho lavorato tanto e bene, io come gli altri, rinunciando perfino ad altre possibilità di lavoro, nella convinzione che avrei avuto un contratto stabile. La Dana tirava, facevamo tanti straordinari per star dietro alle commesse, i lavoratori a termine sono arrivati ad essere più del 30% degli occupati, c’erano le condizioni per essere stabilizzati almeno per chi era lì da tanto, ma alla Dana i contratti a termine non terminavano mai a nostro favore, sono finiti solo adesso, scaricandoci in mezzo alla strada”.

Il lungo incontro con Antonio e i suoi colleghi si svolge sul filo dell’angoscia per la fine del lavoro, che assomiglia alla fine di una vita: perché significa la fine delle certezze del reddito, ma anche di un’esperienza che dava identità, dimensione del futuro, senso di partecipazione alla comunità. Dramma nel dramma, poi, è quello vissuto dagli stranieri licenziati: la perdita del lavoro significa non solo perdita del reddito, ma anche rischio di perdere il permesso di soggiorno conquistato con tanta fatica, e insieme ogni speranza di una vita più dignitosa.

La “Bossi-Fini” è brutale nel disciplinare la materia: solo chi ha un contratto ha il permesso di soggiorno, che dura quanto il rapporto di lavoro. Se perde il lavoro, il lavoratore straniero può rimanere in Italia fino alla scadenza del permesso ed eventualmente per altri 6 mesi; poi, se non c’è un nuovo contratto, il permesso non viene rinnovato e il lavoratore deve togliere il disturbo, lasciare l’Italia, anche se potrebbe ancora godere della cassa integrazione o dell’indennità di mobilità. “Dove devo andare? - mi interroga perplesso Ahmed - Lavoro in Italia da quasi 10 anni, mi sono sempre comportato bene, siamo inseriti bene io e la mia famiglia, i miei figli sono nati qui. Tornare in Pakistan? Non mi sembra possibile”. Già, ma se non viene accolta la richiesta di sospendere la “Bossi-Fini” durante l’emergenza occupazionale, così impone la legge, che altrimenti minaccia espulsione e carcere. Folle e disumano.

Il caso delle cartiere Fedrigoni

Politica e industria han bisogno l’una dell’altra, oggi più che mai. Esempio lampante è quello delle Cartiere Fedrigoni, in località Varone, a Riva, che dopo essersi assunte l’impegno di lavorare con il Comune per nuove opere sui propri terreni, hanno cambiato idea e manifestato la volontà di chiudere, accorpando lo stabilimento di Varone con quello di Arco. Dopo una frattura dei rapporti con l’Amministrazione rivana, ora c’è un tentativo di contatti con la Provincia, al fine di trovare spazio nel Piano Industriale Provinciale: prima dello scorso Natale il neo assessore provinciale Alessandro Olivi si è seduto a un tavolo con amministrazione e sindacati, per avere un quadro aggiornato della situazione. L’intero settore della produzione di carta è in crisi, e se la Fedrigoni decide di trasferirsi ed investire, la Provincia dovrebbe foraggiare l’iniziativa, ed anzi dare una chance al polo di Varone perché non chiuda. Questo almeno è il parere della Cgil, che per bocca del rappresentante Lucio Omezzolli evidenzia come “in questa fase di scambio e ascolto si è fatto il punto della situazione, con le opinioni favorevoli di Dellai ed Olivi, che si sono detti attenti al caso Fedrigoni e chiederanno un altro incontro coi vertici aziendali”. Omezzolli continua dicendo che “ora si vedrà se la politica si caratterizza anche per il fare, e non solo per il parlare”. Dello stesso parere anche Giannantonio Bellomi, portavoce della Cisl, che tratteggia un quadro di crisi per l’intera categoria delle cartiere: “Il 2009 sarà un anno difficile, per il quale non si possono fare previsioni, ma non c’è da essere ottimisti”. (Chiara Turrini)