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Cronache di un paese malato

“Una battaglia dopo l’altra” di Paul Thomas Anderson

L’ex rivoluzionario Bob Ferguson ha smesso da tempo di sognare di cambiare il mondo e sopravvive ai margini della società dividendosi tra droghe, alcol e l’improbabile paternità di un’incredibilmente assennata figlia adolescente. Quando costei sparisce, rapita dall’acerrimo nemico, colonnello Lockjaw, l’ex militante radicale ne va alla disperata ricerca con l’aiuto dei vecchi compagni di lotta.

Sono andato vedere “Una battaglia dopo l’altra” di Paul Thomas Anderson senza saperne niente. Lo faccio con tutti i film, ma questa volta sono caduto nell’equivoco, piuttosto condiviso ho poi riscontrato, di prenderlo sul serio. Di considerarlo, cioè, almeno inizialmente, un film realisticamente drammatico che mi stava facendo molto arrabbiare.

Cronache di un paese malato

Ma come si possono rappresentare in modo così superficialmente ed esaltato il terrorismo e i suoi adepti, l’emigrazione, la violenza? Sono tematiche preoccupanti e spinose, mica bazzecole. Insomma, sulle prime il film mi è sembrato una cretinata insostenibile, con una storia che è una scemenza, ambientata in un territorio (tra Usa e Messico) popolato da idioti totali. Tutti, buoni, cattivi e metà e metà, come il protagonista, la cui figlia è l’unica a salvarsi ed apparire un po’ credibile. Poi però ci ho ripensato e mi sono detto che il film sarà anche una cretinata, ma così è stato scritto e realizzato. E ho pensato, anche in relazione ai precedenti lavori di questo regista, che magari era un film volutamente demenziale, e così l’ho guardato diversamente ed ha cominciato a piacermi.

Ora, di fronte a tutte le polemiche e partigianerie scatenate sui media, penso valga la pena ribadire una certa banalità, ovvero che tutto dipende dalla prospettiva con la quale ci si approccia. Perché è sì un’opera fondamentalmente e volutamente cialtrona sia nelle vicende iperboliche e paradossali, che nei suoi protagonisti, anche quelli potenzialmente positivi, naufraghi nella morte delle ideologie e nella diffusione delle droghe, nell’epoca del neoliberismo, della violenta ed inutile lotta al narcotraffico e del fondamentalismo religioso. Ma allo stesso tempo, e per gli stessi motivi, anche una seria e corrosiva accusa a un paese che ha completamente perso parametri e valori, che respinge, maltratta e sfrutta i migranti, che è in mano a lobbies di fascistoidi, che ha delegato il diritto e la giustizia ad armi e violenza privata, che occulta e reprime la sessualità non conforme, e altre cosette. Insomma, puro Thomas Pynchon, seppure nel liberissimo trattamento cinematografico, in chiave contemporanea, del suo romanzo “Vineland”.

Ma anche puro Paul Thomas Anderson, con l’insistenza del suo sguardo trasversale e a tratti disturbante su un paese dove niente è normale, tutto è malato, viziato, corrotto, tossico, impuro, in modo più o meno esplicito. Dove pochissimo si salva: il lindore di un tatami, l’ingenuità di un’adolescente, il paesaggio del deserto. Uno sguardo personale e caustico che riconduce ai precedenti “Boogie Nights” e “Il petroliere”, ma con una piega più sarcastica e surreale che ci può ricondurre anche altro cinema. A partire da una versione, come dire, politica, del “Grande Lebowski” dei fratelli Cohen, con il personaggio di Leonardo DiCaprio che ha le s/fattezze del Drugo di Jeff Bridges, tossico casalingo che si aggira per tutto il film, dal Texas al Messico, dal deserto alle città, dalle prigioni agli ospedali, con una vestaglia a quadrettoni, le ciabatte di casa e un fucile militare in mano.

Composizione iperbolica che riconduce anche a certo cinema di Robert Rodriguez dove, non a caso, si mescolano action movie, dramma familiare, denuncia sociale e commedia corrosiva. Ed è in questa giustapposizione contraddittoria di temi, stili e personaggi, decisamente altra e sfuggente al mainstream cinematografico americano, per molti fino all’inaccettabile, che sta il valore e il senso del film. Che non prende posizione, trattando tutti i personaggi allo stesso modo, mostrandoli nelle loro miserie, insipienze e perversioni. E comunque, nonostante la prospettiva con la quale lo si guarda, un film che ti sequestra per 160 minuti, fino a quel finale precariamente positivo, ennesima, ultima mazzata all’America statunitense. .

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