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QT n. 9, settembre 2024 Rubriche: Risiko

Da Capitol Hill a Gaza

Le patologie della democrazia liberale

I teorici della democrazia, com’è noto, ne hanno individuato svariate forme: rappresentativa, diretta, deliberativa, partecipativa. Ma si parla pure di democrazia liberale, di democrazia socialista (oggi forma invero desueta), democrazia popolare e persino, quasi con un ossimoro, di democrazie totalitarie. Quel che pare certo è che ovunque si parla ormai apertamente di crisi della democrazia, una antica forma politica già enucleata nel pensiero greco accanto alle altre categorie classiche della monarchia, della aristocrazia o oligarchia.

Due fatti recenti hanno messo sotto gli occhi di tutti, si direbbe anche dell'uomo della strada, questa crisi perché interessano due stati chiave del panorama mondiale indicati, rispettivamente, come la più grande democrazia dell’Occidente, ossia gli Stati Uniti, e come l’unica vera democrazia del Medio Oriente, ossia Israele. I due fatti emblematici cui mi riferisco sono evidentemente l'assalto a Capitol Hill del gennaio 2021, si dice direttamente ispirato se non diretto dall’allora presidente uscente Donald Trump, e il massacro di circa 40.000 palestinesi ordinato dal governo di Netanyahu nella attuale guerra di Gaza, spietata rappresaglia moltiplicata per 40 al massacro dei 1.000 israeliani trucidati da Hamas il 7 ottobre 2023. Si tratta di due fatti che hanno letteralmente scioccato l’opinione pubblica internazionale e che, pur diversissimi, mostrano un ulteriore aspetto preoccupante e per certi versi destabilizzante.

A oltre tre anni di distanza dall' assalto a Capitol Hill, Trump, il principale accusato, non solo non è ancora finito sotto processo (anche grazie a una sentenza di una più che accomodante Corte Suprema), ma anzi si prepara a ritentare l'elezione alla presidenza degli Stati Uniti, godendo tuttora dell’appoggio di circa metà dell’elettorato; in Israele nel frattempo Bibi Netanyahu continua imperterrito a guidare la distruzione di Gaza, in barba alle ordinanze e ai pareri della Corte Internazionale di Giustizia e persino a una richiesta di arresto per crimini di guerra, presentata dal procuratore generale della Corte Penale Internazionale Karim Khan. L'aspetto sconcertante è che, in entrambi i casi, gli organi della giustizia interni o internazionali si sono finora mostrati recalcitranti (nel caso americano) o impotenti (nel caso di Gaza) a sanzionare efficacemente e soprattutto tempestivamente i presunti autori di un vulnus gravissimo alla legalità interna o internazionale. La conseguenza paradossale è che fra qualche mese potrebbe tornare al potere negli Stati Uniti, come presidente e massimo garante della Costituzione americana redatta a Filadelfia nel 1787, colui che solo quattro anni prima, aveva verosimilmente tentato un colpo di stato; e in Israele il potere resta in mano a colui su cui pendono accuse infamanti, dai crimini di guerra a quelli contro l'umanità, a prescindere da altre accuse per reati comuni che il personaggio ha finora dribblato grazie ad accorte manovre e soprattutto alla immunità garantita dalla sua carica.

Ulteriore aspetto importante e forse il più preoccupante in assoluto: negli Stati Uniti come in Israele sembra si sia ormai sviluppata nel pubblico una certa assuefazione a questo stato di evidente pericolo per le istituzioni democratiche. In fondo un personaggio come Trump ha buone probabilità di essere rieletto a novembre e Netanyahu, rifiutando un cessate il fuoco o peggio allargando la guerra all'Iran, potrebbe arrivare a fine mandato, magari persino sperando in una ennesima rielezione.

Appare oggi evidente che la democrazia viene messa a dura prova in due paesi-chiave dell’ “Occidente allargato”, peraltro strettamente alleati sin dalla fondazione dello Stato israeliano nel 1948, benché le due situazioni siano profondamente diverse. Non v'è dubbio che negli Stati Uniti i diritti fondamentali dei cittadini siano salvaguardati dalle leggi, per quanto vi siano segni inquietanti, e mi riferisco non solo alle continue discriminazioni verso i cittadini di origine africana o latinoamericana, fatti oggetto troppo spesso di esecuzioni sommarie da parte di una polizia facile all’uso improprio delle armi; ho in mente bensì la recente durissima repressione nelle università americane del dissenso studentesco sulla conduzione della guerra di Gaza, con studenti ricattati con la minaccia di espulsione dai loro atenei. E non meno preoccupanti sono i segnali di un crescente controllo sulla informazione che corre via internet, dal bando di Tok Tok a quello ormai in preparazione su Telegram.

Le violazioni israeliane

Più grave però ci appare la situazione in Israele, dove pure i diritti democratici e le libertà personale dei cittadini – sottolineo qui “dei cittadini" – sono rispettati e tutelati (un po' meno, si dice, lo sono quelli degli arabi con passaporto israeliano); ma è un fatto innegabile che lo Stato d'Israele si sia reso responsabile di violazioni sistematiche dei diritti dei non-cittadini palestinesi:

1. ha praticato un ultradecennale regime di dura apartheid nei territori di Gaza e Cisgiordania;

2. ha violato tutte le risoluzioni dell’Onu in materia di diritti dei Palestinesi, inducendo il Segretario Generale Gutierrez a pronunciare all’indomani del 7 ottobre il famoso giudizio che fece imbestialire Netanyahu: è vero che Hamas ha commesso una strage, ma questa è arrivata “dopo 70 anni di soffocante occupazione";

3. dopo gli accordi di Oslo per la creazione di due stati, Israele ha perseguito lo svuotamento pianificato degli accordi con la politica di impianto dei coloni ebrei in Cisgiordania, il furto di terre a danno della locale popolazione palestinese, soggetta a ogni genere di abusi e prepotenze, dalla distruzione o incendio delle case, allo sradicamento di alberi da frutto e uliveti, fino alle minacce e aggressioni continue di coloni, apertamente appoggiati dalle forze di polizia o persino dell’esercito. Infine, dopo mezzo secolo e passa di apartheid e violazione sistematica dei diritti, è arrivato l’inimmaginabile: uno Stato, che si vanta di essere baluardo di democrazia, libertà e diritti nel Medio Oriente, si abbandona alla distruzione sistematica di tutte le città e i villaggi di Gaza, di tutte le scuole, gli ospedali, gli acquedotti, le centrali elettriche e i forni del pane; che impedisce l’arrivo di ambulanze e dei camion di viveri e medicinali, che trova normale bombardare interi condomini e campi profughi uccidendo in un colpo solo anche cinquanta o cento persone per “neutralizzare il terrorista” palestinese che si nascondeva tra la popolazione inerme.

Va aggiunto che gli Stati Uniti del democratico Biden e della democratica Kamala Harris (che potrebbe essere il prossimo presidente americano), in questi mesi hanno sistematicamente potenziato lo sforzo bellico repressivo dell’esercito israeliano, rifornendolo di ogni genere di armi e munizioni, di supporto di intelligence, dei media ecc., di fatto esponendo gli Stati Uniti a una futura imbarazzante chiamata di correo se, come appare probabile, l’accusa di genocidio presso la Corte di Giustizia Internazionale sarà confermata da una condanna di Israele (prevista però tra qualche anno) o se la Corte Penale di Giustizia accoglierà la richiesta di arresto di Netanyahu e del ministro della difesa Gallant, avanzata a maggio dal procuratore Karim Khan (il quale l’ha nuovamente perorata con lettera alla Corte anche a metà agosto, sollecitandola a rompere gli indugi e a pronunciarsi, perché nel frattempo le vittime innocenti possono solo aumentare).

Questo il quadro sconsolante di due democrazie-chiave del nostro Occidente. Che dire? Analizzando la patologia della forma “democrazia”, gli studiosi hanno creato vari neologismi: democratura, anocrazia (dall’inglese anocracy), democrazia totalitaria, democrazia limitata ecc. Ma forse occorrerebbe creare un altro neologismo, perché evidentemente nessuno di questi termini si adatta al nostro caso, che in estrema sintesi è quello apparentemente inedito di sistemi politici strutturalmente bifronti: democratici e rispettosi dei diritti dei propri cittadini all’interno; nazistoidi con i propri nemici esterni, veri o supposti, cui talvolta nei fatti viene negata perfino la qualifica di esseri umani.

È il caso ben noto di Guantanamo o di Abu Ghraib, fortunatamente limitato a due prigioni e qualche centinaio di individui, del tutto sottratti in via eccezionale alle normali garanzie della legge americana.

Ma è soprattutto il caso di Israele che preoccupa. Qui compaiono ministri in carica che hanno parlato del diritto d’Israele a “sterminare quegli animali” dei Palestinesi, senza, pare, suscitare quelle ondate di sdegno che simili parole pronunciate da un politico europeo susciterebbero tra i nostri cittadini. È successo che persino un negoziatore dell’accordo per il cessate il fuoco a Gaza, il capo palestinese Haniye propenso all’accordo, è stato fatto oggetto prima dello sterminio totale della sua famiglia bombardata nella casa di Gaza e poi lui stesso è stato assassinato a Tehran, in violazione palese di tutte le leggi internazionali se non del buon senso (risorsa preziosa anche in politica, ma che oggi sembra alquanto latitante a livello governativo in Israele).

La distruzione sistematica delle strutture civili di Gaza nel frattempo continua senza tregua, col suo corollario di civili ammazzati, feriti, storpiati, affamati, stuprati, contaminati. Neppure nel ghetto di Varsavia i nazisti arrivarono a tanto: ben consapevoli del crimine che andavano compiendo, lo tennero accuratamente nascosto agli occhi del mondo sin quasi alla fine del conflitto. L’esercito israeliano non si preoccupa neppure di nascondere il regime di terrore imposto a Gaza e in Cisgiordania, lo fa semplicemente sotto gli occhi del mondo intero, coprendosi con la foglia di fico del diritto di Israele a difendersi, che giornalisti intruppati vanno ripetendo a pappagallo in Italia e altrove. Come se, per fare un paragone, lo Stato italiano avesse deciso di radere al suolo i paesi d’origine o residenza dei mafiosi, con il pretesto di eliminarli: ma sì, uccidiamone anche cento o mille, sicuramente in mezzo ci saranno anche i mafiosi!

La propaganda e i fatti

Non è questa la civiltà del Diritto di cui l’Occidente si vanta dall’Impero di Roma in poi, fondata sulla responsabilità individuale, non sulla punizione collettiva o sulle esecuzioni extra-giudiziali. Credo di essere facile profeta se prevedo che, forse tra qualche mese o qualche anno, quando – cessata la grancassa della propaganda mediatica di parte - la verità dei fatti sarà stata ristabilita dagli storici e nelle aule dei tribunali internazionali, questi stessi giornalisti e politici che oggi danno dell’antisemita e filoterrorista a chiunque critichi Israele, in Europa o in America, giureranno e spergiureranno per negare il loro squadrismo intellettuale di questi mesi, negazione di ogni etica e dignità professionale, del principio stesso della sana informazione: separare i fatti dalle opinioni, la realtà dalla propaganda.

Si osservi - apriamo una parentesi diciamo così linguistica - che mentre i mezzi di comunicazione araba e di molti paesi del blocco russo-cinese (i BRICS) tendono a qualificare Hamas come “movimento di resistenza”, o ad usare la formula dei “patrioti che combattono” per liberare la loro terra dall’occupazione israeliana, i giornalisti mainstream del blocco atlantico si ostinano a usare esclusivamente il termine “terroristi”.

Al terrore dei miliziani di Hamas di un giorno, il 7 ottobre, si è contrapposto il terrore di stato degli ultimi dieci mesi imposto dall’esercito israeliano.

Il terrorismo, evidentemente, non sta da una sola parte. Occorrerebbe forse meditare di più sulla massima: il terrorismo è la guerra dei deboli contro i loro oppressori, la guerra è il terrorismo dei potenti contro gli oppressi. Qualche esempio storico? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Si pensi alla guerra dell’OAS algerino contro il colonialismo francese, alla guerra partigiana italiana o francese contro l’occupante nazista, alla guerra dei vietcong contro gli invasori americani, con il loro lungo corteo di orrori senza fine.

Ma tornando all’argomento principale, sorge la domanda: come si potrebbe chiamare questa nuova ormai evidentissima degenerazione della democrazia che ha oggi la sua forma più inquietante nello stato di Israele, ma che non può essere definita dai termini classici della patologia democratica su descritti? Forse un termine come “demo-nazicrazia” potrebbe approssimarsi alla realtà fattuale? In una sorta di psicodramma nazionale il paese di Netanyahu, come il dottor Jekyll/Mr. Hyde del famoso romanzo, convive oggi con una doppia (ma, verrebbe da dire, schizoide) identità: democratica con i propri cittadini, nazistoide con i propri nemici veri o supposti.

L’Israele di questi tragici mesi fornirà nei manuali di scienza politica dei prossimi anni l’esempio per antonomasia di una nuova mostruosa forma di patologia democratica? Non lo sappiamo, ma, a ben vedere, Israele in realtà ha illustri precedenti, che servono a illuminare la situazione attuale, Comportamenti schizoidi di questo genere sono stati comuni ai grandi stati coloniali della nostra storia recente: l’Inghilterra, patria della democrazia e dell' Habeas Corpus, si macchiò nelle sue colonie - da quelle africane all’India - dei peggiori crimini contro l’umanità, culminati per citare un esempio soltanto nello spaventoso massacro della popolazione civile di Delhi nel 1857, spietata punizione collettiva della fallita rivolta indiana anti-coloniale dei Sepoy, passata alla storia come The Great Mutiny; persino un piccolo stato coloniale come il Belgio si rese responsabile della schiavizzazione e il lavoro forzato di una intera popolazione nell’ex Congo Belga che, secondo stime prudenti, portò alla morte per fame, malattie, uccisioni e maltrattamenti di un milione di individui; e non parliamo dei misfatti dell’Italia coloniale, dalla gassificazione di interi villaggi ai campi di concentramento libici, solo perché l’Italia dell’epoca non era certo un regime democratico.

Ecco, il caso di Israele e della sua guerra a Gaza e Cisgiordania, un caso di sopravvivenza estrema di colonialismo residuale, andrebbe collocato in questo contesto storico che si credeva definitivamente concluso con il '900. Crediamo che non tanto i tribunali internazionali quanto piuttosto una generale rivolta morale e intellettuale dell’opinione pubblica mondiale - di cui i giovani nelle strade e nelle università sono oggi l’avanguardia coraggiosa, come al tempo della guerra del Vietnam - potrà aiutare a liquidare questa ultima ripugnante esperienza coloniale, si spera quanto prima per il bene di tutti, di Israele stessa e del mondo intero. Inshallah.

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