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QT n. 9, settembre 2024 L’editoriale

L’irrinunciabile innovazione: cosa comporta

Sul rapporto di Mario Draghi sulla competitività dell’Unione Europea, premettiamo che più che sulla competitività ci interessa mettere l’enfasi sulla collaborazione, che ci sembra un motore meno dirompente e altrettanto o forse ancor più efficace.

Detto questo, vediamo due dei punti topici esposti, a nostro avviso molto significativi: innovazione ed energia\ambiente. Li vediamo alla luce del dibattito sviluppatosi in questi mesi e anni.

Ricordiamo il fu Sergio Marchionne che, in occasione della laurea honoris causa servilmente elargitagli dall’Università di Trento, spiegò le sue linee guida per il futuro della Fiat: la trazione elettrica è una sciocchezza, la guida autonoma una fantasia. Il che, tradotto in soldoni, voleva dire: avanti abbarbicati al passato, così investiamo il meno possibile. Si sono visti gli esiti.

In questi giorni abbiamo sentito alla radio la diagnosi di un super esperto (così veniva presentato) di automotive, guarda caso di Torino: “La crisi della Volkswagen è dovuta all’errore di avere investito sull’elettrico”.

Da spalla fa Matteo Salvini: “Il passaggio obbligatorio all’elettrico per il 2035, sarebbe esiziale, ci consegneremmo alla Cina. Serve assolutamente una proroga”. Come per i balneari, naturalmente; c’è una logica in questa follia.

Queste tre citazioni credo possano aiutare a capire il deficit di cultura economica ed ambientale con cui ha a che fare Draghi, e più in generale, noi tutti. Sull’ambiente c’è poco da dire: viene considerato un non problema, una sciocchezza, anche quando il resto del mondo lo prende seriamente. Sull’innovazione idem: per rimanere all’automobile, si investe (poco) per cambiare carrozzeria, spremere qualche cavallo in più, innovare radicalmente sarebbe troppo faticoso ed oneroso, meglio andare avanti come sempre e affidarsi a Santa Proroga. Questo conservatorismo economico, se non verrà sconfitto, sarà letale. Significa creare prodotti sempre più arretrati, difendersi per un po’ con i dazi, e poi soccombere.

Il fatto è che le due tematiche, innovazione e ambiente, hanno la stessa radice: lo sguardo corto. Rispettare, curare l’ambiente, significa guardare al futuro. Il che non rende nell’immediato, e allora i cambiamenti climatici, beh, forse, mah... e intanto continuiamo con petrolio e carbone, a fare impianti a bassa quota, a spargere pesticidi, a intubare i fiumi. Così l’innovazione, è sì un investimento, ma per il futuro; e così continuiamo come prima, facciamo il lifting al passato, e alziamo barriere perchè non c’invadano i cattivi che hanno saputo investire per tempo.

Questo conservatorismo ha quindi un punto a favore: pur disastroso nel lungo periodo, è più economico nell’immediato, più facile da vendere. E si può felicemente sposare con le pulsioni nazionaliste o sovraniste. L’innovazione di Draghi infatti ha senso solo se giocata su scala europea: la mole degli investimenti, l’approvvigionamento delle materie prime, l’impatto sui mercati, implicano una massa critica: l’Europa nel suo insieme ce la può senz’altro fare, la singola Italietta, la Francia che gonfia il petto, la Germania già in crisi ecc, da sole non vanno da nessuna parte. Ma deve essere un’Europa che sappia agire, governare, con organismi efficienti legittimati dal voto popolare, che non sia zavorrata da ricatti di questo o quel leader o Paese. In pratica un’Europa unita (o federata).

Ed ecco quindi che si disegna il fronte politico: da una parte chi vuole innovare e quindi, giocoforza, unire; dall’altra chi vuole stare fermo, lucrare sull’immediato, agitare antiche pulsioni nazionali quando non razziali. Tutto si tiene.

D’altra parte c’è l’altro grande tema che abbiamo più volte segnalato: l’assoluta necessità di operare una redistribuzione della ricchezza, dopo trent’anni di disparità crescenti. Chiaramente l’obiettivo dell’innovazione e dell’ambiente dovrà per forza intrecciarsi con quello della lotta alle disuguaglianze. Innanzitutto perché è giusto: una società più moderna ma disuguale fa paura a tutti. E poi perché, come già si è visto, se si regalano i ceti torteggiati al conservatorismo si perde la partita.

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