Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 7, luglio 2023 Cover story

L’assalto al Tribunale

L'infiltrazione mafiosa nelle amare parole dei PM al processo Perfido.

Siamo intervenuti fin troppo tardi, li abbiamo lasciati scorrere questa regione dove e quando hanno voluto.” Queste le parole centrali della requisitoria del PM Davide Ognibene al processo “Perfido”. Parole autocritiche, pesanti, oneste ed amare, giunte al termine di una dettagliata disamina dei tanti, troppi anni di infiltrazione ‘ndranghetista mai rilevata dal Tribunale. Un Tribunale - aggiungiamo noi - che regolarmente cestinava gli esposti di chi – il Coordinamento Lavoro Porfido – puntigliosamente ma invano segnalava i continui strappi, sempre più laceranti, alla legalità. Ora, come è stata possibile questa deriva?

La risposta la dà lo stesso Ognibene, ed è ancora più amara – e durissima: “C’è stato un assalto al Tribunale”. Non con mortai e kalashnikov, ma con le ambigue cene di capra, con i vertici dell’istituzione che sgomitavano per partecipare ai conviti del faccendiere Giulio Carini, “il trait d’union – caratteristico nelle strutture mafiose ed essenziale per le stesse - con l’imprenditoria, la politica e le istituzioni locali”. Nessuna meraviglia che dopo queste allegre serate in bella compagnia si snobbassero i dolenti segnali che pur arrivavano dal territorio. L’assalto era riuscito.

Difatti l’infiltrazione, come ricostruita dai PM, è stata lunga, duratura. E profonda, nei territori del porfido (negli altri non sappiamo).

Come è avvenuta?

La succursale trentina

Le modalità dell’infiltrazione sono state il tema di fondo delle requisitorie, l’ambito entro cui i PM (oltre ad Ognibene, anche la dott.ssa Maria Colpani) hanno inserito le responsabilità dei singoli imputati. Con una premessa, importantissima dal punto di vista giudiziario: anni di intercettazioni telefoniche e ambientali, e le migliaia di pagine di trascrizioni, attestano, secondo l’accusa, “una sorta di ampia, diffusa, dettagliata e specifica confessione da parte di tutti gli imputati”.

Per anni costoro hanno parlato, fatto affari, si sono accordati, hanno litigato, intimidito, rievocato i fatti antichi, commentato i nuovi, fatto viaggi in Calabria alle corti dei boss, sempre con le loro voci ascoltate e registrate. Sono così le loro stesse parole a descrivere i fatti e delineare le responsabilità.

In particolare, la questione primaria: esiste o non esiste la “locale” in Trentino, ossia la diramazione periferica della ‘ndrangheta?

La locale in Trentino esiste perché ce lo dicono gli imputati. Attraverso affermazioni chiare ed esplicite” si rispondono i PM. Innanzitutto sul controllo del territorio attraverso l’intimidazione: “Parlano, si vantano di quello che fanno perché traggono soddisfazione nel dimostrare la loro caratura (criminale, ndr) nell’ambito della struttura”. Insomma, nell’organizzazione criminale, il crimine è un presupposto indispensabile, un merito, e viene esibito con orgoglio.

L’infiltrazione, un passo alla volta

L’infiltrazione va fatta risalire alle guerre di mafia calabrese a cavallo fine anni ’70-inizio ’80. I nostri facevano parte della cosca Serraino-Paviglianiti-Iamonte. Così Giuseppe Battaglia (l’attuale “amministratore delegato” del gruppo) dice di sé: “Una volta picchiavo forte pure io nel mio paese di Cardeto. Eravamo più di 80, dai 17 ai 25 anni, tutti insieme” agli ordini di Francesco Serraino. Il fratello Pietro, in altra conversazione, rievoca la pericolosa contiguità di Giuseppe con tale Filippo: “Questo girava a Reggio con una Mercedes blindata e girava ed era pieno di armi ovunque, la vettura era in qualsiasi posto piena di pistole e cartucce”. Pietro teme per il fratello e gli consiglia di andare via: “Un anno dopo Filippo è rimasto ucciso all’interno di queste guerre di ‘ndrangheta che c’erano”.

Cugino dei Battaglia è Innocenzio Macheda. Così ne parla Giuseppe: “Sì, Macheda è uno che fa paura insomma, anche io però ero così”. E poi ancora: “Ha fatto le galere peggiori di questo stato e non si è neanche calmato col carcere perché quando è uscito... una volta che era da solo - non eravamo sempre insieme - ha preso 4 o 5 albanesi di quelli duri e li ha massacrati da solo, con una... ha preso una stecca di biliardo e ogni colpo buttava uno a terra”.

Oggi in Cembra, se Battaglia è l’amministratore delegato, Macheda è il capo della locale. Sembra una diarchia. E in parte lo è. Anzi, la situazione è più complicata.

Ma questo lo vedremo dopo.

Sull’ingresso silente del gruppo nella società trentina, sul “lento radicamento, sociale ed economico” ha già scritto nella prima sentenza di condanna (di Saverio Arfuso) il giudice Borrelli. I PM danno per scontato questo passaggio. Approfondiscono invece quelli successivi.

La fortuna di questa locale è prevalentemente concentrata alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000 – sostiene la dott.ssa Colpani - Poi ci sarà una ridda di società” in cui l’illegalità viene utilizzata per arrivare da una parte al fallimento, dall’altra alla spogliazione della società e all’arricchimento dei nostri (che sono infatti accusati anche di bancarotta fraudolenta).

Il primo grosso colpo è l’affare Camparta, la più grande cava di porfido privata del Trentino (e forse del mondo, dice la Guardia di Finanza), comperata con un’azione congiunta di Giuseppe Battaglia e dei fratelli Odorizzi. Anche Colpani, come a suo tempo QT, si meraviglia di questa stranissima alleanza, tra il calabrese letteralmente scappato di casa e i potentissimi Odorizzi, i maggiori cavatori e referenti politici a livello provinciale (Tiziano Odorizzi, dapprima sindaco di Albiano, è stato poi influente consigliere regionale e padrino della legge sulle cave). La PM lungamente illustra le anomalie dei contorti passaggi di proprietà e di denaro (ne avevamo scritto ne “I signori del porfido” del giugno 2019).

C’è una strana fiducia degli Odorizzi in Battaglia: prima gli emettono assegni sulla fiducia e solo dopo entrano in società. “Non sappiamo in realtà quali rapporti siano intercorsi fra gli Odorizi e Battaglia, però sicuramente è anomalo questo passaggio di denaro tra persone sconosciute e prima ancora di avere una garanzia... Così come pare anomalo che la Camparta abbia stipulato un preliminare di vendita con la persona fisica di Battaglia Giuseppe, quindi non con una società, ma con una persona fisica che si impegna a versare 7 miliardi di lire”.

Non solo. “Quello che però è poi grandemente anomalo è che appena dopo 2 anni, la Autotrasporti Battaglia rivende le sue quote alle Odorizzi ... per 3 miliardi di euro”. Questo il commento di Pietro Battaglia: “Siamo usciti da là con una valigetta piena di denaro”. E Giuseppe Battaglia: “Quando stavo bene ho comprato la Camparta, ho guadagnato a comprarla e rivenderla dopo 3 anni”.

Conclusioni: 1) Colpani: “A parere dell’accusa la Camparta effettivamente può essere stata un veicolo di riciclaggio di denaro”.

2) Colpani: La Camparta avrà problemi, concordati vari e verrà cancellata nel 2007.

3) “Però intanto Battaglia Giuseppe da quella società ha tirato fuori puliti puliti 1 milione e 650 mila euro... ma potrebbero essere anche di più”.

4) Pietro Battaglia: “Giuseppe si è preso 5 milioni di euro in contanti, non sono chiacchiere perché li ho contati io sul tavolo, soldi che sono scomparsi, non so che fine hanno fatto”.

5) QT: con questo affare a braccetto degli Odorizzi, Battaglia entra a vele spiegate nel Gotha degli imprenditori cembrani.

I fallimenti

I passaggi successivi sono ancora più eclatanti. Colpani approfondisce il caso della Cava Saltori. Così spiega lo stesso Bruno Saltori: “Nel corso dell’anno 2013 venivo avvicinato da tale Battaglia, il quale avendo conoscenza del momento di seria di difficoltà che affliggeva il settore del porfido, in particolare la mia azienda, mi rappresentava l’interesse ad acquistare la proprietà della mia società... per un corrispettivo di 51 mila. Si impegnava a liberare da tutte le garanzie verso i terzi, verso le banche, cosa che poi non avvenne. Di fatto il controllo lo ha assunto Battaglia Giuseppe, aveva i codici di accesso in banca, token, intrattenendo lui stesso i rapporti con le banche, i clienti e i fornitori”. In realtà Battaglia e la moglie Giovanna Casagranda, che funge da contabile, non paga i debiti della Saltori, versa i 51.000 euro sul conto della Finporfidi srl, società dei figli, vende il porfido in nero, cancella i crediti verso la Finporfidi, assicura a Saltori un compenso mensile di 2000 euro, ma non lo paga, sostanzialmente non paga gli operai.

Così conclude Colpani: “Di fatto Saltori lo hanno fregato così, gli hanno fatto credere che risanavano questa azienda, gli hanno fatto credere che gli davano uno stipendio, non gli hanno dato neanche quello”.

Lungo è l’elenco di aziende che, secondo la PM, Battaglia, in proprio o più spesso attraverso prestanome, acquisisce, spolpa e porta al fallimento: “Quando la curatrice fallimentare dottoressa Pizzini è andata a vedere che cosa erano queste cave, ha trovato una desolazione incredibile, è rimasta impressionata, si percepisce proprio l’impoverimento... c’è stato un depredare la ricchezza del territorio”.

Così Mario Nania, prestanome di Battaglia, suo sodale e anche duro uomo di mano “parla degli impresari del posto e dice ‘Stanno morendo tutti’, ride, dicendo che non sanno dove sbattere la testa”.

Gli schiavi

L’arricchimento non viene solo dai fallimenti pilotati, viene anche dallo sfruttamento della manodopera. Anzi, non solo sfruttamento, precisano i PM, bensì riduzione in schiavitù. Che è uno specifico reato, contemplato nell’articolo 600 bis.

La strategia dei nostri è brutale ed articolata. Innanzitutto attraverso “la minaccia dell’uso della violenza, e con l’effettivo uso della violenza”. Come si è visto nel caso del brutale pestaggio dell’operaio cinese Hu Xupai, che i nostri lettori hanno senz’altro presente. E in una intercettazione, tal Franco Favara ricorda come Mario Nania, fino a quando non fu condannato per estorsione e falso “andava giù col bastone in cava e menava i dipendenti”.

Non pagare è un sistema, come spiega Giuseppe Battaglia: “I cinesi non creano problemi, lavorano anche con 200 euro al mese”. L’ufficetto della contabile Giovanna Casagranda dispensa promesse ed illusioni, si usa l’inganno, l’insulto, il disprezzo: “Guarda che ti ho fatto il bonifico” e quello dice: “No, non lo vedo”, “No, te l’ho fatto, te l’ho fatto il bonifico”. Ma il bonifico non c’è mai.” Così Mario Nania con l’operaio cinese Zhan: “Cazzo, tua banca sicuro non bene, cornuto giapponese, coglione, bastardo”.

C’è anche – dice Colpani - un atteggiamento di irrisione, di disprezzo verso il dipendente che trema, trema perché va nell’ufficio di Giovanna a prendere la copia dell’Inps di Equitalia a cui bisogna dare i soldi, lui in silenzio, spaventato, era con la figlia, ha ritirato la copia della lettera ed è andato via subito, Battaglia e Nania se la ridono di vedere i dipendenti spaventati”.

Quando il lavoratore osa chiamare il sindacato così reagisce Battaglia: “Questi qua li dobbiamo far fuori subito, li dobbiamo licenziare”.

E’ una sottomissione. “I lavoratori non erano liberi di scegliere se andarsene o meno, dovevano rimanere lì per ottenere il loro salario, perché se se ne andavano... che cosa potevano fare dei poveri cinesi, rivolgersi ad un avvocato?

I capi

Questa strategia economico-criminale non è però pienamente condivisa all’interno della locale. E’ ritenuta troppo morbida: “Ci siamo fossilizzati” sospira (o ringhia?) Macheda. La cosa si intreccia con il tema del comando nella locale, che non è scontato. Su di esso molto insistono i PM, in quanto rivelatore dell’organicità dei rapporti con la casa madre calabrese.

A suo tempo a Cardeto, era stata fatta la nomina del capo di quella cosca: per alzata di mano e al voto partecipò anche Innocenzio Macheda, che contribuì all’elezione a capo di Saverio Arfuso, peraltro suo cugino. Il rilievo di Macheda nell’organizzazione lo si evince dai rapporti stretti che ha con il capocosca Antonio Serraino.

Questo organigramma viene alterato quando si fa salire Arfuso da Cardeto a Cembra. Per due motivi: in Calabria Arfuso è pressato dalle forze dell’ordine; e inoltre ha svolto una politica non apprezzata da Antonio Serraino, ha troppo allargato la locale, con l’inserimento di persone non fidatissime, e quindi viene allontanato.

Ma a Trento, ci sono ora due capi, Macheda e Arfuso? No. Arfuso viene accolto con tutti gli onori, gli viene subito presentata un’arma per dimostrare l’operatività (ossia le capacità criminali) della locale di Lona-Lases, però... però è un ex-capo, a Lona comanda Macheda. Che ne approfitta, e una sera, giocando a carte, gli rivolge una battuta che lui ritiene ingiuriosa, all’unico scopo di ribadire i rapporti gerarchici. Nel successivo colloquio tra Arfuso e Demetrio Costantino, afferma la PM Colpani cui interessa ribadire la totale intraneità degli imputati al sistema mafioso, “si assiste proprio al dolore che prova Arfuso a dover essere in una posizione di sottoposizione a Macheda quando prima a Cardeto il capo era lui”. Per la cronaca, a Trento Saverio Arfuso è risultato il primo imputato di Perfido riconosciuto colpevole di associazione mafiosa e condannato anche in appello ad otto anni e 10 mesi.

Però forse ancora più interessante è la diarchia Macheda-Battaglia.

Macheda non condivide l’infiltrazione silente di Battaglia. Più volte se ne lamenta. Queste le parole che condivide con Mario Nania: “Sarei dovuto passare cava per cava e gli dicevo tu mi dai due camion di grezzo senza pagare se vuoi lavorare sennò ti ammazzo con tutta la famiglia, comincio da tua figlia e finisco da tua moglie. Gli avrei fatto vedere a tizio, caio e sempronio...” L’ostacolo è Battaglia: “Mi disse ma con il lavoro qua stiamo bene, chi me lo fa fare a me mi fece”. Evidentemente la strategia del pizzo contrapposta a quella del lavoro (peraltro con tutte le illegalità che abbiamo visto) è stata sottoposta anche alla casa madre: “Ti giuro Mario, io lo dissi a tutti pure sotto, Mario ci risolveva la situazione” cioè Mario Nania, che non si tira indietro quando c’è da menare le mani, era perfettamente in grado di applicare una strategia violenta. Ma in Calabria hanno deciso altrimenti, conclude Colpani: “La modalità di condotta è frutto di una decisione, di una strategia che è stata presa a livello gerarchico a Reggio Calabria, è frutto di una politica della ‘Ndrangheta”.

La strategia, quindi, non è quella decisa dal capo. Che vede lesa la sua autorità. Così Macheda si lamenta con Pietro Battaglia dell’atteggiamento irrispettoso di Giuseppe: “Non risponde alle mie chiamate, non risponde al telefono, l’ho chiamato già quattro volte”. E poi: “Non è un atteggiamento che deve tenere”

Sarà la madre di Macheda, Domenica Denisi, donna di notevole caratura ‘ndranghetista, a intervenire in favore del figlio: “Io a Battaglia Giuseppe gli ho dato un sacco di milioni quando è venuto su a fare le ditte, però gli ho anche detto a Battaglia Giuseppe stai attento perché qua Macheda non è per caso”.

Le istituzioni

La nostra locale è ossessionata dalla volontà di introdursi nelle istituzioni, ha una esigenza fortissima” afferma Ognibene. Cerca coperture, protezioni, complicità.

La prima istituzione ad essere investita è la stazione dei Carabinieri di Albiano. QT ha rilevato, fin dal maggio 2019, il comportamento dei CC in occasione del pestaggio di Hu Xupai. I PM lo ripercorrono brevemente, basta ricordare i reati per cui i militi sono tuttora indagati, tra cui “favoreggiamento personale con l'aggravante di condotta realizzata per agevolare attività mafiose”.

Ci sono altri casi, minori, ma indicativi. Dei giovani campeggiatori hanno la pessima idea di accamparsi presso una delle cave dei sodali e, ubriachi, di operare danneggiamenti e ridicoli furti (mettono la refurtiva in macchina e poi vanno a dormire, sempre in cava, sul luogo del delitto); la mattina vengono svegliati dai carabinieri e dai calabresi, che li bastonano. I CC portano via i giovani, li accusano di furto, sorvolano sul pestaggio, e “lasciano che il corpo del reato se lo prenda Macheda Innocenzio, se lo metta nel baule della macchina”. La giustizia, “il controllo del territorio è affidato a loro”.

Come nel caso di furti di gasolio: “Nania ripete più volte che vuole picchiare i ladri così lo capiscono che non devono rubare, che gli vuole spezzare le braccia e le gambe”. Si avvale di telecamere, “il controllo che doveva essere esercitato dalle Forze di Polizia è stato sostituito dal controllo che esercitavano i membri della locale.”

C’è di più: “i Carabinieri addirittura propongono a Nania di denunciare il Comune”. E per che cosa? Perché aveva revocato la concessione dell’Anesi srl “motivata dalle truffe che Nania aveva fatto nei confronti del Comune”. Ai limiti dell’incredibile.

L’infiltrazione

Appunto, i Comuni. Quello è il secondo livello dei condizionamenti.

Colpani ripercorre le cariche di consigliere comunale e di assessore alle cave ricoperte dai fratelli Battaglia e dal figlio Demetrio, con salti da una lista all’altra, per meglio operare condizionamenti. Ne abbiamo lungamente scritto e non ripetiamo. La PM in particolare sottolinea come queste acrobazie politiche tornino utilissime: per far finire gli scarti del piano di attuazione Montegorsa alla Marmirolo, società di Giuseppe Battaglia; per evitare la revoca della concessione alla Anesi srl, responsabile di truffa nei confronti dello stesso Comune, e di aver sottobanco cambiato la composizione sociale (cosa non consentita) attraverso l’ingresso della Finporfidi. Ci sono diversi passaggi, votazioni in conflitto di interesse, cambiamenti di normative, ricorsi alla magistratura; quando infine il sindaco revoca la concessione, Demetrio Battaglia ne provoca la caduta.

Non basta. “Non è che si fermano qua – arringa Ognibene - Questi soggetti sono entrati a casa nostra, Presidente, sono entrati in palazzo, sono entrati in Tribunale, hanno trovato contatti importanti, seri e confidenziali”. C’è Domenico Morello che “ha un contatto diretto col presidente del Tribunale Avolio, ne parla pure male, dice: ‘Deve fare quello che dico io perché poi... è inutile che fa tanto il santerello quando beve le birre’”. Poi c’è Giulio Carini “che organizza queste cene a base di capra di solito, dove coinvolge vari membri delle istituzioni, Prefetti, primari e, ahimè, appunto Magistrati. I quali Magistrati peraltro si litigano il privilegio di partecipare a queste cene.” Il tutto “è coessenziale al piano iniziale, attribuito a Macheda e Battaglia, della introduzione silente, ma efficace, potente e con effetti importanti per la economia”.

Conclusione: “È una struttura che si è infiltrata nella... ahimè, nella città bianca come diceva Serraino, la città bianca trentina dove i trentini sono delle persone semplici, non possono resistere alla ‘intraprendenza’ dei calabresi”.

L’accusa conclude chiedendo pene che, con lo sconto di un terzo per il rito abbreviato, sono di 14 anni per Giuseppe Battaglia, 12 per Mario Nania, 11 per Pietro Battaglia e Giovanna Casagranda, per gli altri tra i 12 e gli 8 anni, per un totale di 88 anni.