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Aleksandr Dugin e un articolo che ha fatto discutere

Fondamentalismo religioso stampella di una guerra d'aggressione, oppure ribellione al monopolarismo USA? Interpretazioni a confronto.

Sull’ultimo numero di QT, l’intervento del professor Carlo Saccone nella rubrica Risiko (“Il mondo multipolare di Alexandr Dugin”) ha suscitato dibattito, interesse e veementi prese di posizione. Un articolo decisamente interessante, in particolare nell’illustrare la tendenza dei paesi non occidentali, in primis Cina, India e Russia, ad abbandonare il sistema di pagamenti interbancari (SWIFT) controllato dagli Usa e cercare alternative modalità di transazione internazionale.

Quello che nell’articolo ha lasciato perplessi, sono lo spazio e le modalità di presentazione dedicati alla figura di Alexandr Dugin, filosofo russo, per un certo periodo ritenuto l’ideologo di Putin. L’uomo è una figura estrema, che non solo ripropone il nefasto connubio fondamentalismo religioso\politica\guerra, ma ha propagandato l’odio etnico in forme particolarmente aberranti: per fare un esempio, poco prima dell’attentato costatole la vita, la figlia Darya aveva classificato gli ucraini come “subumani che devono essere conquistati”.

Abbiamo chiesto quindi al prof. Saccone di chiarire ulteriormente il suo pensiero rispondendo a un paio di domande. Anticipiamo che chi scrive (il direttore) e gran parte della redazione non condivide appieno le risposte, ma QT intende essere una palestra di opinioni diversificate, e tra esse è benvenuto lo sguardo largo del professore (docente di islamologia e di letteratura persiana) nell’esaminare la politica internazionale alla luce delle dinamiche profonde nei mondi dell’Oriente.

Professore, sappiamo benissimo che lei aborre l’odio razziale e le guerre di religione. Ma il suo articolo da alcuni è stato letto come un elogio di Dugin, o quanto meno come un’esposizione parziale (in quanto ne tralascia le conclusioni più aberranti) e in fondo benevola delle sue teorie. Cosa risponde?

Distinguo due questioni. La prima concerne, come rilevato da molti, l'abbassamento della soglia di tolleranza nei media europei per discorsi sulla Russia e il conflitto russo-ucraino disallineati rispetto al mainstream. Nei dibattiti televisivi colpisce il mantra recitato dagli ospiti che temono di urtare l'uditorio o una parte di esso: "Premetto che non contesto che la Russia sia il paese aggressore e l'Ucraina il paese aggredito", oppure: "Premetto che condanno la vile aggressione di Putin” ecc. ". Un brutto segno, a mio parere.

Un intellettuale, un giornalista, un analista non dovrebbe sentirsi costretto a questa sorta di excusatio prima di aprire bocca sull'argomento. Ma probabilmente è costretto a farlo per prudenza, per il timore tutt'altro che ingiustificato di essere estromesso o peggio ancora di venire messo alla gogna e finire bersagliato nel tritacarne dei social.

Perché si è arrivati a questo? La mia risposta è semplice: siamo di fatto in uno stato di guerra, non dichiarata, certo, ma con tutto quel che ne consegue per l'informazione. L'Italia è schierata da una parte, né altro avrebbe potuto fare, e molti operatori dell’informazione ne hanno preso atto, perlopiù attuando una sorta di discreta autocensura.

Per esemplificare: non v'è dubbio che vi siano stati episodi di massacri indiscriminati, che, in un quadro da guerra civile, si può presumere si siano distribuiti più o meno equamente tra russi e ucraini; ma l'informazione che passa da noi, enfatizzerà solo i crimini attribuiti ai russi. Superfluo aggiungere che i media russi e dei paesi alleati, fanno esattamente la stessa cosa, a parti invertite.

Secondo esempio: nei nostri media le bande del battaglione d'Azov sono presentate come eroici difensori di Mariupol, ma si minimizzano le loro evidenti simpatie filonaziste e soprattutto si omette di raccontare i loro crimini nella lunga pre-guerra del Donbass che dura dal 2014. Questo meccanismo funziona, ben inteso, anche su molte altre questioni e finisce per alimentare il sospetto di un sistematico doppiopesismo morale.

Alcuni esempi: si batte e ribatte nei nostri media sull'oppressione degli Uiguri in Cina, ma si tace o si minimizza su quella israeliana a danno dei palestinesi; si stigmatizzava la Russia per avere rubato e trattenuto il grano ucraino, almeno fino al successivo accordo mediato da Erdogan, ma si tace sul petrolio e il grano che da anni, armi in pugno, viene rubato dagli USA nella Siria orientale (Trump lo vantava apertamente quanto spudoratamente: "Rimaniamo lì per il petrolio"). Dovremmo chiederci: dove è finito il giornalismo d'inchiesta? Quando in Italia si parla di politica internazionale, si fanno inchieste, certo, ma ormai solo a senso unico.

Cosa dice su Dugin?

E’ la seconda questione. Io avrei presentato il pensiero di Dugin con sguardo benevolo o indulgente, trascurando i lati più inquietanti o indigesti? Sarebbe velleitario in tre pagine e mezza di articolo pretendere di presentare il pensiero molto articolato di un filosofo con decine di saggi e centinaia di articoli alle spalle, scritti oltretutto in russo, una lingua che studiai per due anni da giovane ormai 50 anni fa, ma che non padroneggio.

Nell'articolo mi soffermo su una sola sua opera, peraltro la più celebre, la “Quarta teoria politica” (abbrevio in QTP), che ho potuto leggere in versione italiana (ed. Aspis 2020). E di quest'opera ho tentato di dare una breve sintesi: la necessità, secondo Dugin, di superare il mondo unipolare creatosi dopo il crollo dell'URSS, un mondo dominato dagli USA e dal suo strapotere economico, tecnologico e in senso lato culturale. In sintesi la QTP condanna senza mezzi termini ogni teoria razzista a partire dal nazionalsocialismo e dal fascismo, e fa una critica serrata delle “imposture” del liberalismo. Le parole di Darya Dugina richiamate nella vostra domanda sono certamente odiose, da inquadrare nell’odio atavico tra russi e ucraini che risale ai tempi della Rivoluzione e alla lotta civile tra bolscevichi e guardie bianche, ravvivato ed esacerbato dall’attuale conflitto; ma non sono in alcun modo riconducibili al pensiero di Dugin padre. Il cui aspetto più interessante, che ho potuto solo rapidamente lumeggiare, è l'accento sui diritti dei popoli, sul rispetto per lui sacro di radici e identità etniche e culturali di ogni nazione. Dugin vede nel globalismo di marca anglosassone non solo l'espressione del dominio economico-finanziario degli USA ma anche, cosa che ritiene ancora più perniciosa, l'espressione di un tentativo arrogante e deliberato, di cancellare le differenze, di livellare e omologare tutto e tutti alle esigenze del Capitale. Il nostro Occidente parla di diritti degli individui, Dugin sposta l'accento sui diritti dei popoli. Il marxismo parlava di opposizione tra capitalisti e proletari, Dugin di opposizione tra stati dominanti e stati dell'ex terzo mondo. Naturalmente la sola presenza di stati-impero come la Russia e la Cina, con grandi risorse e una forte identità, costituirebbe un ostacolo formidabile, anche se in sostanza il dominio degli USA e stati vassalli (quelli europei in primis) secondo Dugin non è ancora al tramonto: il dollaro, lo SWIFT, un esercito che rimane il più potente al mondo e un sistema sofisticatissimo di gestione dell'opinione pubblica a livello planetario, consentono ancora di perpetuare, pur tra crescenti difficoltà, l'unipolarismo americano. Di qui, ed era il focus del mio articolo, l'insistenza di Dugin sulla necessità di promuovere con tutti i mezzi il multipolarismo, ovvero di spezzare il presunto monopolio planetario degli USA e distruggere quel mondo unipolare costruito da Wall Street e dal Pentagono.

Si può naturalmente discutere sulla bontà del progetto di Dugin, che peraltro i recenti successi dello SCO e del BRIC - di cui parlavo nell'articolo - sembrano corroborare. Si può discutere della pretesa di Dugin di vedere proprio la Russia a capo di questo "movimento di liberazione" da dominatori anglofoni che egli addita come nemici non solo delle identità e delle radici dei popoli, ma persino come nemici dell'umanità tout court. Non credo però sia saggio demonizzare il suo pensiero.

Politica e religione

In Russia da secoli esiste un pensiero che inneggia alla “Santa Madre Russia”, presente anche in personaggi di immensa caratura intellettuale, come Tolstoj o Dostoevskij; quando noi leggiamo quei passaggi li saltiamo, come balzane espressioni di un passato arcaico e riprovevole, incongrue rispetto alle vette artistiche della cultura russa. Ora però Dugin e il patriarca ortodosso Kirill, riprendono quelle suggestioni e ne fanno il substrato ideologico di una sacra contrapposizione al decadente Occidente. Su di esse sale Putin, nell’ennesimo sconcio connubio trono-altare. Ma oggi, che non siamo più ai tempi dello zar, e anzi c’è stata l’opposta esperienza del comunismo, quanto sono credibili i vaneggiamenti sulla Santa Madre Russia? In quanti sarebbero disposti a morire per essa?

Domanda complessa che forse richiederebbe esperienze e letture da slavista che io non posseggo, in grado di spaziare sulla storia ultramillenaria della Russia e della sua straordinaria vita culturale. Ma su un aspetto posso dire qualcosa, ossia circa il legame tra visione politica e visione religiosa nel pensiero di Dugin.

Caduta l'illusione comunista, ovunque nel mondo le religioni hanno rialzato la testa. In America Bush padre e figlio - entrambi vicini al fondamentalismo evangelico - hanno immaginato gli USA come avanguardia benedetta dal Signore nella guerra santa contro il Male incarnato dal nemico di turno (prima l'URSS, poi l'Iran degli ayatollah, poi Bin Laden e l'ISIS, poi la Corea del Nord e ora, dulcis in fundo, la Russia di Putin). Nei paesi arabi il connubio politica-fondamentalismo è ben noto. Più a est, in India, è al potere il partito di Modi sostenuto dal fondamentalismo induista, responsabile di tanti pogrom anti-musulmani. In Iran cominciò l'ayatollah Khomeyni nel ‘79 a lanciare anatemi contro il Grande Satana, cioè gli USA. In Israele il mito di bibliche ascendenze della Grande Israele che andrebbe dal Nilo all'Eufrate, sottende buona parte del discorso politico dei fondamentalisti ebrei, spesso bene rappresentati nei governi del paese. Infine in Turchia Erdogan è capo dello stato e insieme capo di un partito islamico che si propone di moralizzare la società.

Insomma, la religione è tornata alla grande, nel bene e nel male, a essere un ingrediente importante e talora decisivo nella politica internazionale. Dugin nel suo pensiero riflette questa tendenza a coniugare politica e religione, soprattutto nel vedere la Russia come il paese destinato da Dio a liberare il mondo dalla piovra di un Occidente visto succube di tendenze anticristiane. Dugin è dunque in buona compagnia. Di nuovo, in lui c’è semmai una apertura ecumenica alle altre grandi religioni – dall’islam all’induismo (posizione evidentemente inconciliabile con l’accusa di razzismo) – nella convinzione che una santa alleanza tra le fedi sarebbe necessaria per combattere il liberalismo amorale e materialista del decadente Occidente. Si può rigettare le tesi di Dugin o meno, ma certamente il suo pensiero ha un livello di complessità ed elaborazione filosofica che ne fanno un pensatore degno di studio, non di dileggio. Anche perché quel mondo multipolare che egli preconizza nei suoi pamphlet si sta gradualmente realizzando sotto i nostri occhi, come ben mostra il recente vertice di Samarkanda.