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Verso le terre alte

I “nuovi montanari”, soprattutto stranieri, che in montagna hanno trovato casa e lavoro, contribuiscono a mantenere in vita comunità e territori, tenendo aperte scuole, uffici postali, linee di autobus, ecc. Ma ora, col decreto sicurezza... Da "Una Città", mensile di Forlì.

Andrea Membretti. A cura di Barbara Bertoncin

Alla base delle nostre indagini c’è lo spopolamento delle aree montane interne e al contempo l’interesse per come la presenza di nuove popolazioni sta creando delle occasioni per rivitalizzare questi territori e queste comunità. Le popolazioni in questione sono costituite dai cosiddetti “montanari per scelta”, gli italiani, ma anche dai “montanari per necessità”, i migranti economici, che da un punto di vista numerico sono maggioritari. Nel solo arco alpino italiano abbiamo quasi 400.000 residenti stranieri regolari. Infine c’è la presenza più recente dei richiedenti asilo, che abbiamo definito “montanari per forza”. A inizio 2017, sui circa 130.000 ospitati, il 40% era in aree montane, Alpi e soprattutto Appennini.

I cosiddetti nuovi montanari sono persone che vanno in montagna per sviluppare un progetto di lavoro e di vita. Non sono dei pendolari, anche se mantengono un rapporto con la metropoli di origine, perché lì hanno reti relazionali, vendono i loro prodotti, fanno parte di circuiti di tipo culturale, di reti associative. Numericamente sono una componente ristretta, anche se in crescita.

Da poco è partito il progetto “Vado a vivere in montagna”, messo in piedi a Torino col supporto della Compagnia di Sanpaolo, il coinvolgimento del Collegio Carlo Alberto e di altri attori. Questo servizio mira a favorire l’insediamento nelle aree montane (per il momento solo in Piemonte) di nuovi abitanti aiutandoli a crearsi un’occasione di vita sostenibile.

L’età e le condizioni di queste persone sono diverse: andiamo da un minimo di 19 anni a un massimo di 63-64. Anche i titoli di studio sono variegati. Sono tutti accomunati dal desiderio di avere un’esperienza di vita diversa rispetto a quella urbana, o perché sono giovani che hanno studiato e vogliono un altro orizzonte rispetto a quello della fuga dei cervelli o di percorsi più canonici; o perché sono persone meno giovani espulse dal mercato del lavoro o si sono autoespulse; o perché hanno una certa età e qualche risorsa economica che vogliono investire pensando a un invecchiamento attivo, ad esempio avviando un B&B in una baita.

Quello dei nuovi montanari è un fenomeno numericamente ridotto, ma con molte potenzialità ed è cresciuto in seguito alla crisi economica, ma anche per rispondere alla crisi culturale e valoriale che stiamo attraversando.

I nuovi montanari stanno sperimentando anche forme di innovazione socio-economica interessanti, su cui ci sarebbe molto da fare in termini di normativa. Purtroppo scontiamo un’assenza pressoché totale delle politiche. L’Unione nazionale dei comuni, comunità ed enti montani (Uncem) sta portando avanti delle ipotesi di lavoro, per esempio quella di defiscalizzare i negozi e gli esercizi di alta montagna; insomma, via via che sali di quota dovrebbero scendere le tasse e salire invece gli incentivi. Al momento, però, tutto questo è solo un’idea sulla carta.

Gli stranieri

Molto più consistente del fenomeno dei nuovi montanari è l’immigrazione straniera verso le terre alte. Parliamo di migranti economici che hanno trovato nei territori montani e anche nelle aree interne delle occasioni lavorative. Le 400.000 persone presenti nel solo arco alpino non sono lì perché qualcuno ce le ha mandate, ci sono arrivate spontaneamente. Costoro non sono mossi dall’immaginario dei nuovi montanari italiani che hanno magari l’idea della decrescita, dell’impresa economico-sociale alternativa; loro cercano lavoro e per necessità si sono fatti montanari, accettando le condizioni di vita di questi contesti.

I montanari stranieri sono impiegati anzitutto nel settore primario: agricoltura di montagna, taglio del bosco, estrazione della pietra... La pastorizia transumante è straniera al 90%. Naturalmente lavorano come manovalanza perché la proprietà delle greggi resta italiana. Si tratta di una popolazione finita in montagna con un effetto rimbalzo dalla città, alla ricerca di migliori condizioni. Fanno professioni che gli italiani rifiutano o banalmente è venuta meno la gente che faceva quei mestieri.

Tra loro c’è anche qualche forma di imprenditorialità. Per esempio, rumeni e marocchini avviano attività nell’edilizia; nascono anche cooperative miste italiane e straniere per il taglio del bosco. Ma il grosso è lavoro dipendente, con condizioni salariali non particolarmente alte, però con la possibilità di trovare un lavoro e una casa che in città farebbero fatica ad avere.

Assistiamo a una significativa distribuzione di popolazione straniera migrante lavorativa nelle Alpi, ma anche negli Appennini, dove hanno occupato nicchie professionali lasciate libere.

A Bagnolo Piemonte, un comune montano in provincia di Cuneo, da secoli la principale attività economica è l’estrazione di una pregiata pietra da costruzione. Nel 2016 su circa 6.000 abitanti gli stranieri erano oltre 800. La comunità immigrata più consistente è quella cinese, che tra l’altro viene tutta dallo stesso distretto della madrepatria: parliamo di circa 500 persone che, nelle cave, hanno sostituito gli immigrati sardi. Nel loro caso non c’è neanche più l’effetto rimbalzo: non è che arrivano prima a Torino o a Cuneo e poi vanno a Barge o a Bagnolo, vanno direttamente in quei posti perché vengono chiamati e addirittura alcuni titolari delle cave sono cinesi, riusciti a inserirsi dove gli italiani han lasciato o perché l’attività era poco conveniente o per ragioni di qualità della vita.

Il caso dei cinesi vede una fortissima integrazione lavorativa: hanno quasi tutti contratti a tempo indeterminato e un buon livello salariale. Hanno anche una buona integrazione abitativa, non vivono in baraccamenti o stamberghe. Hanno invece difficoltà enormi nell’inclusione sociale e nell’interazione col resto della comunità. Ovviamente ogni caso è un po’ a sé, certo il rischio dell’isolamento, a maggior ragione in montagna e soprattutto per le donne che non lavorano, è reale. Ciò vale per le cinesi come per le africane o mediorientali. Il trait d’union è rappresentato dai ragazzi che, andando a scuola, favoriscono comunque un’interazione.

Montanari per forza

Poi ci sono i richiedenti asilo, montanari per forza, perché nessuno ha lasciato loro una scelta. Come ricordavo, alla fine del 2016 il 40% dei richiedenti asilo era ospitato in aree montane. L’esistenza di spazi di rarefazione sociale e demografico-abitativa ha infatti favorito l’insediamento non solo di nuovi montanari italiani e stranieri, ma anche di migranti. Si vede chiaramente che la dislocazione dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria) e degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) insiste per lo più in aree montane e nei contesti più spopolati.

Ovviamente, l’intenzione non era in primis quella di favorire il ripopolamento, bensì di usare degli spazi vuoti disponibili. Poi però amministrazioni locali e ong hanno capito che attivando uno Sprar si poteva evitare che il sistema prefettizio dei Cas piazzasse cento persone in un albergo abbandonato con conseguenti problemi di gestione e inclusione, anche lavorativa. L’insediamento di uno Sprar con 15-20, anche 30 rifugiati, poteva invece creare un volano per rilanciare delle economie e delle situazioni demografiche compromesse.

Dopo due mesi dalla presentazione della domanda per la protezione internazionale, i richiedenti asilo sono autorizzati a lavorare. Naturalmente, se vengono collocati in contesti dove mancano possibilità lavorative, rimangono sul territorio favorendo l’affermarsi degli stereotipi su cui questo governo ha costruito una parte del suo consenso: “Stanno lì e non fanno niente, prendono 35 euro al giorno per poltrire sulle panchine...”. I progetti che abbiamo analizzato hanno invece utilizzato in modo innovativo il contributo statale per creare delle occasioni lavorative, quindi non solo la formazione, ma una formazione orientata alla cura del territorio, del bosco, al ripristino di alcune attività artigianali...

C’è poi il problema che, di fronte all’incertezza sulla permanenza di queste persone, che è vincolata all’esito della loro domanda, molti imprenditori preferiscono non farne nulla. Oltre al fatto che la protezione umanitaria, quella che copriva la maggior parte di queste persone, ora è stata tolta.

Qualche storia

A Pettinengo, nelle Prealpi del Biellese, è stato aperto un Cas che, nel corso dell’anno, ospita un centinaio di persone. Questa presenza ha prodotto un’economia interessante per un paese in fortissima crisi per la chiusura di industrie importanti, penso in particolare alla Liabel; quando la cassa integrazione è finita, la gente ha dovuto spostarsi su Biella o Torino per avere qualche occasione lavorativa. L’apertura del Cas ha dato lavoro a trenta persone. In un paese di mille abitanti offrire un’opportunità a trenta lavoratori con relative famiglie significa impattare sulla vita di 100-150 persone, oltre il 10% della popolazione. Anche qui i migranti sono stati coinvolti in percorsi di formazione-lavoro nella cura del territorio: ripristino dei sentieri, pulizia del bosco, cura di parchi e giardini; attività che hanno contribuito alla creazione di legami con la comunità.

Oppure penso al caso della cooperativa K Pax in Valcamonica che, grazie all’apporto di alcuni richiedenti asilo, ha riattivato un albergo abbandonato, ma non per farne uno spazio per rifugiati. Lì si è deciso di investire in un hotel aperto al pubblico, secondo i principi del turismo sostenibile e con il personale in parte costituito da richiedenti asilo. Parliamo di una località, Breno, dove non c’era più un albergo aperto. Anche la Valcamonica è in crisi perché ha perso la vocazione turistica e ora anche quella industriale è in difficoltà. Ecco allora l’idea di un “eco hotel culturale”, che rispetti l’ambiente e valorizzi il territorio e il patrimonio culturale.

O, ancora, la cooperativa Cadore, impegnata nel turismo e nell’agricoltura sociale di montagna, che lavora al recupero di varietà locali di ortaggi, come il carciofo alpino, recuperando terreni incolti, creando occasioni di lavoro per rifugiati e persone svantaggiate e promuovendo coesione sociale.

Il punto è che dove si lavora bene queste iniziative hanno un impatto molto positivo, anche dal punto di vista demografico, riattivando relazioni sociali. Diciamo che si smuovono un po’ le acque. C’è infine un piccolo impatto economico.

Bisognerebbe considerare i migranti non come delle persone da togliere dalla ribalta delle metropoli per collocarle in uno spazio di retroscena, ma come un investimento. Ovviamente, essendo mancato qualsiasi investimento sugli italiani, aspettarsi che lo si faccia sui migranti è forse utopistico.

Ma senza una politica per lo sviluppo delle aree di cui stiamo parlando, i rischi sono, da un lato, una iper-turistizzazione, dall’altro, una periferizzazione con occasioni di sviluppo locale inesistenti.

Un altro esito negativo riguarda alcuni dei nuovi montanari, che dopo un po’ collassano. Se non riescono a fare massa critica, queste persone devono infatti ricorrere a un’economia multifunzionale per cui magari, in una coppia, lui avvia un’attività nella pastorizia, ma la moglie deve mantenere un impiego in città, e allora cominciano i problemi di gestione della famiglia, dei bambini... Oppure tutto un piccolo gruppo investe in un’attività di montagna, ma poi non riesce a viverci, perché va bene la decrescita, ma non la miseria e così alla fine si rinuncia facendo morire anche il piccolo indotto che si crea in queste situazioni.

Questo discorso vale anche per i migranti economici, che comunque sono quelli che si sono adattati meglio perché hanno occupato nicchie professionali che i nuovi montanari non cercavano. Nessuno da Torino, magari laureato, vuole andare a fare il muratore in montagna o lavorare nel montaggio degli impianti di riscaldamento, ma neanche diventare boscaiolo! I nuovi montanari italiani hanno in mente altro: la ristorazione, gli eventi culturali, l’allevamento, ma solo per fare il formaggio e il prodotto di nicchia, i piccoli frutti, tutte cose che invece lo straniero non considera. Lo straniero immagina di fare il manovale, casomai un domani di aprire una piccola impresa edile, di taglio del bosco. Non ho poi parlato dell’assistenza familiare, che costituisce un fenomeno rilevante, quasi totalmente femminile. C’è una grandissima presenza di assistenti, soprattutto dall’Europa orientale, che favorisce la permanenza in loco degli anziani.

Dopo il decreto sicurezza

I migranti economici presenti nelle aree montane sono pressoché tutti in possesso di un permesso che consente la loro permanenza. Hanno un lavoro e spesso hanno ottenuto il ricongiungimento familiare, quindi si presume che rimarranno lì e continueranno a tenere in piedi quelle economie locali, l’apertura delle scuole, il mantenimento dell’ufficio postale, il fatto che ci sia un bus; continueranno insomma a rappresentare l’ossatura di molte comunità montane, in un contesto però che tenderà a metterli nell’ombra, se non ad additarli come elementi negativi, con il rischio di alimentare un clima sfavorevole.

L’impatto più forte riguarderà i cosiddetti montanari forzati. In questi anni ci siamo imbattuti in molti casi interessanti di utilizzo innovativo della presenza straniera forzata per riattivare dei borghi. Anche con un inizio di conversione di alcuni montanari per forza in montanari per scelta. Ma il Decreto Sicurezza, depotenziando il sistema dell’accoglienza diffusa, porrà fine a queste esperienze, riportando i richiedenti asilo nelle città, quindi nei grandi centri, nei Cas e nei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). Con la cancellazione dei permessi di soggiorno umanitari avremo quindi più irregolari in città e anche nelle aree montane: chi ha trovato una casa, un lavoro, una rete, tenderà infatti a rimanere dov’è, ma fuori dal circuito della legalità.

Rischiamo dunque di perdere un’opportunità dove tra l’altro si prefigurava una situazione di reciproco vantaggio.

* * *

Andrea Membretti, Senior Researcher presso Eurac (Bolzano) e Istituto per lo Sviluppo Regionale, insegna Sociologia del Territorio all’Università di Pavia.

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