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Leggo, non capisco, comunque parlo

Sul Giornale online mi imbatto in un racconto breve, senza titolo, di Sebastiano Vassalli. Dal sommario si evince che si tratta di “un ritratto sarcastico della nostra società (e dell’istruzione post ‘68)”. È in effetti un gustosissimo monologo in cui un somaro patentato, ma dalla lingua sciolta, ripensa a come ha messo nel sacco la commissione d’esame della maturità, ubriacandola col suo repertorio di stereotipi anti-nozionistici sessantottini. La chiosa poi risulta assai più realistica che paradossale: il somaro è consapevole di non sapere un bel niente ma, grazie al fumo di cui sa ammantare quel niente, si auto-profetizza un avvenire di successo.

Segue quindi il piccolo forum dei lettori. Ebbene, su sei commentatori solo uno ha capito che si tratta di un brandello ironico di letteratura. Dai restanti 5/6 è stato inteso come lo sfogo autentico di un ragazzotto politicizzato, tale Vassalli Sebastiano. Da cui una serie di indignate contumelie indirizzate all’autore, financo ai “governanti comunisti” (all’origine dello sfacelo educativo). Svetta la sentenza di Ubidoc, che merita citazione integrale per mirabile perspicacia. “Uno che cerca di giustificare la propria ignoranza e la propria pochissima voglia di studiare con questi scritti è un fallito. Tralascio parole offensive. Punto e basta.”. Così parlò Ubidoc.

Ora immagino che qualcuno troverà il tutto assai normale trattandosi di un forum su ilgiornale.it. Personalmente ritengo sbagliato, oltre che poco etico, attribuire deficit cognitivi a intere comunità. Nelle mie peregrinazioni nel web constato che, sebbene ci siano certe aree politico-culturali in cui pare più addensarsi una certa povertà di spirito, tuttavia lo sfoggio di stupidità è desolatamente trasversale e nessun gruppo può proclamarsi immune. La fattispecie di cui sopra rappresenta l’epifenomeno di un inedito quanto diffuso atteggiamento comunicativo. Il web ha seminato in tanti di noi due nuove istanze dello spirito. La prima è quella di non perdere tempo a leggere un testo, limitandosi a cogliere qua e là qualche parola chiave per poi ricostruire il tutto con la fantasia. La seconda, connessa alla prima, riguarda l’ansia insopprimibile di dover dire sempre e comunque qualcosa su qualsiasi cosa, anche su quella di cui non si è voluto o saputo capire un cazzo. E qui la parolaccia la sento invero letterariamente necessaria, per suono e semantica.