27 gennaio: il Sudtirolo comincia a ricordare
In occasione della Giornata della memoria, appuntamenti, ricerche e libri mostrano che qualcosa sta cambiando
Quest’anno non sono state solo cerimonie istituzionali a celebrare la memoria delle atrocità del nazismo e del fascismo in Sudtirolo. Alcune iniziative hanno dato un contenuto nient’affatto retorico a questa giornata, il 27 di gennaio, quando l’Armata Rossa aprì le porte del lager di Auschwitz e “scoprì” al mondo qualcosa che troppi già sapevano fingendo di non sapere.
A Bolzano la deposizione di corone è stata concentrata in quattro luoghi: il muro del lager di via Resia, la tomba e monumento a Manlio Longon, il cimitero ebraico e i binari di via Pacinotti, da cui si partiva verso i campi di sterminio. Oltre all’ANPI e alle autorità di Bolzano, era presente anche il presidente della Provincia Kompatscher, che ha dimostrato ancora una volta attenzione a un’interpretazione della storia locale che attraversi e superi le contrapposizioni nazionaliste.
È vero anche che negli altri comuni, a parte Merano – dove amministra un sindaco illuminato - non si è fatto niente. Qualcuno ha giustificato l’indifferenza di tanta parte del Sudtirolo facendo riferimento al vecchio gioco perverso della reciproca giustificazione degli italiani antinazisti e dei tedeschi antifascisti. Penso che questo qualcuno abbia sbagliato, perché nei giorni di gennaio si è capito che qualcosa si muove.
I cittadini Sinti hanno organizzato un convegno nella sala del Comune di Bolzano per ricordare il Porrajmos, il loro Olocausto, di cui ancora non si sa abbastanza.
A Merano una maratona cinematografica ha mostrato tre film che riguardano il Tirolo e in contemporanea il film di 9 ore di Lanzmann, “Shoah”, che rimane l’opera fondamentale per la comprensione di questo fatto storico.
A Bressanone alcune scuole e la Facoltà di Scienza della Formazione hanno organizzato una conferenza.
Sono due libri, però, che hanno fatto la differenza. O forse tre. Del primo, di Sabine Mayr e Joachim Innerhofer, è stata presentata l’edizione in lingua italiana, con il titolo “Quando la patria uccide. Storie ritrovate di famiglie ebraiche in alto Adige”. Il libro documenta il profondo antisemitismo che contrassegna il Sudtirolo, manifestatosi nel tempo in numerose forme, e l’importanza per la storia e la vita della cittadina del Passirio della presenza ebraica. Gli ebrei a Merano, dalla seconda metà del XIX secolo, hanno dato un forte contributo allo sviluppo del turismo: sono stati medici, economisti, commercianti, artisti, hanno partecipato alla vita sociale, costruito alberghi, case e fabbriche, aperto e gestito teatri.
I due autori si sono avvalsi anche dei precedenti lavori di Leopold Steurer, Federico Steinhaus, Thomas Albrich, Cinzia Villani, e anche di quelli sulla corrispondenza degli uffici fascisti che servivano ad attuare i “provvedimenti per la protezione della razza”, fatti dall’Archivio storico Città di Bolzano per le “pietre d’inciampo” posate nel 2015, che ricordano le vittime ebraiche a Bolzano.
È un libro che racconta storie mai sentite, ed è stato finanziato anche dall’Assessorato alla Cultura in lingua tedesca, un’importante novità. La ricerca sul periodo storico fra il 1943 e il 1945 finora era stata portata avanti dal Comune di Bolzano, dove con non poche difficoltà e spesso con atteggiamento ostile da parte della SVP, l’Archivio storico della Città, e in particolare Carla Giacomozzi, ha lavorato per molti anni sul campo di transito (e di morte), raccogliendo un’imponente mole di testimonianze di persone oggi scomparse, e documenti da numerosi archivi.
Proprio in questi giorni il Comune, di cui dal 2010 Franz Thaler era cittadino onorario, ha avuto dai suoi eredi il lascito del mite eroe della resistenza sudtirolese: lettere, articoli, registrazioni, fotografie, libri, e i manoscritti originali del suo meraviglioso libro “Unvergessen” (versione italiana: “Dimenticare mai”). Thaler venne internato a Dachau nel 1944 e liberato nel 1945 da Hersbruck. Per tutta la vita non si è stancato di raccontare. La sua resistenza non fu solo nel tempo del nazionalsocialismo, ma si prolungò per molti decenni dopo la fine della guerra e delle dittature.
L’avvocato Arnaldo Loner rappresentò il Comune di Bolzano, parte civile, nel processo contro Mischa Seifert, il feroce aguzzino del campo, nella cui condanna contò molto anche la documentazione raccolta dall’Archivio. Opera del suo grande impegno civile è il secondo libro apparso in questi giorni. Si tratta della pubblicazione di una cartella di disegni realizzati da due artisti francesi, Pierre Mania e Auguste Favier. Internati nel lager di Buchenwald, dal luglio 1943 fino alla liberazione, disegnarono quanto vedevano accadere sotto i loro occhi e ritraevano i loro compagni di prigionia.
Non era facile, e rischiarono continuamente la vita, perché i tedeschi non volevano che rimanesse traccia dei loro delitti. Il libro è una rara testimonianza, perché mentre la maggior parte delle immagini note si riferiscono a dopo che i lager furono liberati dagli Alleati, queste “ci hanno permesso di vedere nella vita del lager”, ha detto Loner, fatte com’erano nei vagoni della deportazione e nel campo stesso. Oggi, scomparsi ormai i testimoni, è indispensabile che ci sia documentazione per contrastare il negazionismo. Certo, è difficile credere a quanto è accaduto. Negli anni scorsi due grandi mostre in Germania hanno svelato i meccanismi e le responsabilità diffuse non solo delle SS ma anche di militari e civili. Ma forse l’orrore è troppo grande perché si possa capire davvero.
Sulla copertina e nel frontespizio del libro, “Buchenwald 1943-1945”, edito da CIERRE, sta un disegno che rappresenta “l’albero di Goethe”, una grande quercia sulla collina di Ettersberg, mèta delle passeggiate del poeta tedesco, che viveva a Weimar, a pochi chilometri. Nel 1937 la collina venne disboscata per creare il campo di concentramento. I tedeschi non tagliarono la quercia, perché una leggenda diceva che “quando morirà la quercia, cadrà anche il Reich tedesco”. L’albero fu usato per impiccare i prigionieri. Bombardato nel 1944, fu tagliato.
Il terzo libro è il prodotto di una ricerca non del tutto terminata, che ha ricostruito la storia di 23 giovani uomini, rinchiusi nel lager di Bolzano e uccisi uno ad uno con un colpo di pistola nella caserma “Mignone” di Oltrisarco a Bolzano, il 12 settembre del 1944. Seppelliti in una fossa comune e nel dopoguerra messi in tombe singole, erano stati poi dimenticati.
Carla Giacomozzi è partita dal ritrovamento di un discorso di commemorazione tenuto alla radio da don Daniele Longhi, anche lui chiuso nel lager. E ora si sa che i 23 erano agenti segreti del governo Badoglio, in attività contro il governo di Salò. Arrestati, alcuni trovati in possesso delle radio ricetrasmittenti fornite dagli Americani, furono portati a Verona e poi, non si sa perché, a Bolzano. Alcuni di loro avevano portato a termine diverse operazioni, prima di essere scoperti, e anche insigniti di medaglie.
La città ha intitolato ai 23 una piazzetta, nel luogo dove morirono. Fiorisce il ricordo: nel parco intitolato a suo nome, è stata apposta una targa a Olimpia Carpi, la più piccola ebrea deportata e uccisa nel 1943 dai nazifascisti.
Nel Sudtirolo arriva anche dalla “madrepatria” Austria una voce nuova e chiara. Il presidente della Repubblica, il liberal-ambientalista-europeista Alexander van der Bellen, nel suo bellissimo discorso di insediamento del 26 gennaio, in cui ha fatto appello alla fiducia (“Lo scetticismo vede la notte buia, ma la fiducia vede il cielo pieno di stelle”) e ha dichiarato il proprio apprezzamento per la molteplicità e la diversità con diritti e doveri uguali per tutti, ha inserito anche un severo ammonimento a non dimenticare la responsabilità storica: “Domani è un giorno speciale, domani è la Giornata internazionale dell’Olocausto. In memoria del maggiore crimine della storia umana. L’Olocausto è anche parte della nostra storia. Milioni di esseri umani sono stati assassinati al tempo del nazionalsocialismo. Gli Austriaci furono vittime, ma anche colpevoli. A coloro che riuscirono a fuggire venne sottratta la patria. Pochi degli scampati furono invitati a tornare. E a molti, se tornarono, non venne dato il benvenuto. Considero questo una delle pagine più oscure della nostra storia austriaca. La pagina più oscura, che non dimenticheremo mai”.
“Direi che in Alto Adige c’è la stessa identica situazione [dell’Austria]. Una mancata rielaborazione di ciò che accadde in quegli anni, una vocazione autoassolutoria assoluta, con un vittimismo ancora più radicato che in Austria in virtù delle vessazioni subite durante il fascismo. Parla da solo il fatto che le prima richiesta di perdono ufficiale, pubblica, di un sindaco [Paul Rösch, indipendente in una lista Verde] alla comunità ebraica meranese sia arrivata solo l’altra sera, a distanza di 71 anni dalla fine della guerra”.
Marko Feingold, 103 anni, deportato in quattro Lager, vive a Salisburgo. Intervista di M.Fattor sull’Alto Adige del 23 dicembre scorso