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La missione fra due fiumi

Cronache dal Mozambico

Andrea Facchetti

Qui l’energia elettrica non è ancora arrivata. L’hanno fermata a Bawe, il villaggio otto chilometri prima. Qui nella savana, appena sotto il 17° parallelo dell’emisfero australe, il sole conosce poco le stagioni e alle 18 o giù di lì, durante tutto l’anno, scivola dietro le colline scavate dalla forza delle acque dello Zambesi. Qui la notte porta a casa la gente dalla campagna, porta reggimenti di zanzare, porta le vacche nei recinti, porta il buio illuminato dai fuochi accesi a fianco delle capanne, porta il silenzio cadenzato dal battito delle mani sul tamburo. Ma, soprattutto, porta un cielo vasto da vertigine. Naturale cercare corrispondenze col cielo dell’emisfero boreale, ma niente da fare.

Il fiume Zambesi

Padre Janvier è tornato a Chemba perché la guerriglia in Congo, suo paese di origine, pare terminata e così a me è stato chiesto di integrare la comunità di Charre che da più di due anni aspettava un padre. Dai primi di marzo sono quindi a Charre assieme a p. Cesare e a p. Justin. A Dio piacendo, questa dovrebbe essere la mia destinazione definitiva, almeno per qualche anno. Un nuovo inizio: di nuovo ricominciare a conoscere i volti e le storie di vita, ricominciare a tessere le relazioni, a imparare le strade memorizzando i punti critici per non rimanere impiantato con la jeep, a cercare i luoghi dove trovare silenzio. In ogni modo, mettere radici costa meno che tagliarle. Delle quattro comunità che come missionari Saveriani abbiamo in Mozambico, forse questa è la meno facile: isolata per quattro mesi durante la stagione delle piogge, secca e povera nel resto dell’anno, altra regione e altra diocesi, 82 comunità da incontrare almeno due volte all’anno e fino oltre 200 km di distanza su strade sterrate. Ma va bene così.

Charre è terra arida in mezzo a due grandi fiumi, in linea d’aria equidistante una ventina di chilometri da entrambi: a ovest lo Zambesi, a est lo Chire, che nasce dal lago Niassa per gettarsi nello Zambesi.

La vacca, certezza di sopravvivenza

Charre è villaggio di capanne sparse a ridosso della strada sterrata che porta a nord, in Malawi. Per raggiungere alcune nostre comunità dobbiamo attraversare la frontiera per poi rientrare in territorio mozambicano. Charre è la vasta pianura dello Chire ed è anche terra di colline ripide in prossimità dello Zambesi: in mezzo ad alberi secolari la gente ha ritagliato i suoi campi coltivati a miglio, sorgo e mais, che resistono perché i raggi del sole arrivano più obliqui che in pianura e la montagna trattiene l’umidità. Charre è terra di capre, ma la regina qui è la vacca. La vacca è certezza di sopravvivenza: una famiglia che ha una vacca, può fare un pessimo raccolto per la siccità, ma non fa la fame. I commercianti vengono da Tete, da Beira e da Quelimane per rivenderle nei mercati in città. E una vacca può valere fino a 13.000 meticais, cioè il salario di tre mesi di un maestro elementare.

In tempi di guerra fredda, il Mozambico divenne campo di battaglia di giochi di potere decisi altrove: da una parte il blocco comunista, dall’altro quello occidentale. Nei 16 anni di guerra civile (1976-1992), migliaia di mozambicani passarono da Charre, sulla strada polverosa a trenta metri da casa nostra: dei cinque milioni di profughi, la gran parte cercava rifugio in Malawi e questo di Charre era il canale di fuga principale. I villaggi venivano abbandonati: chi aveva parenti scappava in città, altrimenti fuggiva oltre il confine. Di coloro che scelsero di rimanere, un milione furono uccisi. Anche Charre, in quegli anni rimase deserta. E i missionari che erano qui allora, per amore del popolo assieme al quale avevano già camminato nella lotta contro il regime coloniale portoghese, decisero di nuovo di non abbandonarlo, ma di condividere la medesima sorte di profughi. Dal Malawi tornavano di nascosto, rischiando la vita per non perdere le relazioni con chi aveva scelto di restare e aveva cercato un nascondiglio nello isole situate nella confluenza tra lo Zambesi e lo Chire. Questo popolo, dopo più di venti anni, non dimentica i nomi, i volti e le storie di chi ha scelto di fare un pezzo di strada assieme.

Estrazione del carbone a Moatize

Un sistema corrotto da cima a fondo

Per arrivare a Charre si attraversa lo Zambesi e si va verso nord. Altra regione: da Sofala si entra in quella di Tete, che prende il nome dalla omonima città capoluogo. La regione di Tete è una delle più povere del Mozambico: realtà prettamente rurale caratterizzata dalla scarsità di pioggia, con strade pessime, comprese le arterie principali, asfaltate solo in parte; tutti i distretti e i municipi amministrati dalla Frelimo, con un sistema clientelare e corrotto da cima a fondo; villaggi sperduti, distanti da scuole e ospedali, con tassi elevatissimi di mortalità infantile e di analfabetismo.

La regione di Tete è povera, ma è anche ricchissima. Nel 2008 alcuni geologi fecero una scoperta sorprendente: a 30 km da Tete si trova la maggiore riserva di carbone del pianeta ancora non sfruttata, con 23 miliardi di tonnellate di carbone. Così, dopo pochi anni, Moatize è oggi la maggiore miniera di carbone a cielo aperto del mondo. Le due maggiori concessioni sono in mano alla brasiliana Vale e alla britannico-australiana Rio Tinto. Si stanno ora svegliando anche cinesi e indiani, economie in crescita e in cerca di fonti di energia. Inoltre, ci sono tecnici provenienti dall’Africa del Sud, imprese di costruzione portoghesi, altre statunitensi specializzate nel commercio di macchine pesanti. Ci sono tutti. Eccetto che mozambicani. Le duemila famiglie del villaggio di Moatize sono state “delocalizzate” a 40 km di distanza, in mezzo al niente, e sono ancora in attesa di una parte dell’ indennizzo che le multinazionali giurano di avere dato al governo mozambicano e che pare abbia preso altre destinazioni. E anche la maggior parte delle attività economiche generate dalla corsa al carbone sono gestite da imprese straniere: gli stessi alimenti forniti ai lavoratori arrivano in aereo da Johannesburg.

Si potrà pensare che se non ci sono ricadute dirette sull’economia locale, ci potranno essere benefici almeno a livello macroeconomico nel lungo periodo. Niente da fare. Per favorire l’afflusso degli investimenti, il governo mozambicano ha concesso condizioni generosissime in termini di riduzioni fiscali. La Banca Mondiale afferma che il Mozambico - nonostante un PIL al +7,5% - continuerà a rimanere uno dei paesi più poveri dell’Africa Australe se non modificherà i regimi fiscali concessi alle multinazionali del carbone e del gas naturale (l’italianissima Eni in testa) e non reinvestirà i proventi in istruzione, sanità, agricoltura e infrastrutture. E a dirlo è la Banca Mondiale, baluardo del capitalismo liberista, nonché principale detentore del debito pubblico mozambicano.

Sono arrivato a Charre all’inizio dello Ndzidzi ya Ntsiku Makumanai, letteralmente “il periodo dei 40 giorni”, la Quaresima. Il colore liturgico della Quaresima è il viola; un colore che presso il popolo Sena esiste come concetto, perché il viola si dà nella realtà, ma non esiste come parola. In maniera icastica, per dare un nome al concetto del viola, si è coniata l’espressione “Nsuzi ya nyemba”, che significa “il bruciato dei fagioli”, perché, con uno sforzo di immaginazione, i fagioli bruciati possono avere un colore che vagamente ricorda il viola.

Il digiuno: un’assurdità

Ma almeno, il concetto di viola esiste. Più problematica è la questione del digiuno, uno dei pilastri del tempo di Quaresima - che, presso il popolo Sena, non esiste neppure come concetto. Del resto, è difficile avere il concetto di digiuno in una realtà dove la fame è problema quotidiano e dove per dire “grazie” si dice “takhuta”, verbo al quale si ricorre alla fine del pasto per esprimere la sazietà e che comunica la pienezza della gioia. Ecco allora che per rendere una parola come il digiuno, della quale non esisteva il concetto, si è coniata l’espressione “nyatwa ya njala”, che letteralmente significa “sofferenza della fame”. In effetti, è difficile negare che la decisione volontaria di non mangiare, in un contesto dove l’assenza del mangiare è preoccupazione reale, non sia una sofferenza.

Pensavo a questo la prima domenica di aprile, tornando da una comunità, sotto un cielo plumbeo, con la jeep che slittava nell’ultimo fango di una stagione delle piogge magra prossima al termine. Nelle settimane precedenti, non mi ero neppure azzardato a cercare corrispondenze improbabili parlando alla gente del colore liturgico viola o del digiuno.

Quella stessa domenica, a notte ormai calata e prossimo a casa, pensavo a quanta strada avrei dovuto ancora fare prima di potermi togliere i sandali delle mie certezze per entrare in sintonia con la polvere e il fango della strada, con la fatica di giorni interi a zappare sotto il sole, col profumo della polenta di miglio intinta nei fagioli, con l’ingiustizia della propria terra venduta alle multinazionali della canna da zucchero, col tramonto sullo Zambesi nelle sue infinite gradazioni dal giallo al rosso, con la storia di una madre che deve tirare avanti dopo che il marito ha preso la seconda moglie, con la rassegnazione di Zacarias che deve pagare sottobanco se non vuole essere bocciato, con l’attesa trepidante della pioggia che quando arriva dà vita alla terra, col volto felice di chi torna dalla campagna con il frutto del proprio lavoro caricato sopra la testa e un figlio neonato addormentato avvolto alla schiena.