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Signorina

Dipinto di Miriam Canali

Ero ancora bambina: ben lungi dal sospettare che il mio aspetto attraesse, e ignara dei possibili pericoli, quel mattino andai in stazione per prendere la corriera per l’Altopiano di Pinè. Era maggio, c’era la prima comunione della mia cuginetta Antonella e la mamma aveva deciso che ero abbastanza grande da andar sola, qualche contrattempo la tratteneva. Ero in prima media, una delle più alte della fila, mamma mi aveva fatto accomodare dalla sarta giacca e gonna a quadri scozzesi smesse da una zia. Sicuramente sembravo più grande ma m’infagottavano un po’. Con gonna e calzettoni poi – e uno o l’altro che scendeva! - non potevo più correre e saltare come allora ancora facevo. Sapevo a quale pensilina dirigermi e dovevo solo chiedere se quella corriera andava fino a Pinè o se in valle deviava a destra e si fermava in un altro paese. Di domenica mattina c’erano poche persone in attesa e non rimaneva che attendere l’arrivo della corriera e informarsi direttamente dall’autista. Ma c’era un vecchietto poco distante e dopo un po’ mi avvicinai e gli chiesi quella precisazione per non rischiare di finire nel posto sbagliato. Fu molto gentile e mi rassicurò che quella era la pensilina giusta, anche lui avrebbe preso la stessa corriera. Poi quando mi chiese di dove ero, dove andavo e perché, risposi con altrettanta gentilezza. Stupita e lusingata che un adulto si rivolgesse a me chiamandomi “signorina”. Era la prima persona che lo faceva, e quella promozione, guadagnata senza merito alcuno, metteva paura e vergogna insieme. E poi, a dire il vero, non ero ancora “signorina”. Quando Luisa, la mia compagna di banco, mi aveva confidato in segreto che era diventata signorina, subito non avevo capito. Io pensavo che si diventasse tali quando si potevano mettere le calze di nylon e ne erano così la prova evidente. Poi, crescendo, avevo saputo che invece bisognava “svilupparsi” e mi sembrava brutto solo il termine.

E poi che incubo quelle calze! Mamma trafficava a indossarle, si vedeva che erano scomodissime, fermate da un reggicalze ballerino, e si smagliavano come lunghe cicatrici nella terra arsa. Per la faccenda delle calze, diventare grandi non mi sembrava un affare. Quel vecchietto ricordava vagamente il nonno: basso di statura, vestito dalle feste e con lo stesso cappello che gli uomini portavano di domenica. All’arrivo della corriera mi dirigo per salire davanti, ma lui mi blocca chiedendomi se soffro di mal d’auto. Certo, rispondo, sto davanti perché quando vado in colonia con la corriera, vomito. No no, guarda che sbagli, meglio stare in fondo se fa male la corriera. Perplessa e confusa, decido poi che agli adulti si deve dare ragione. Salgo sugli scalini, lui dietro di me, mi spinge indirizzandomi sicuro verso l’ultima fila. A quel punto scelgo il posto al finestrino, sempre preoccupata di non stare male. Sono poche le persone sul pullman e il viaggio non è proprio breve.

Si è seduto alla mia destra e mi fa molte domande sulla famiglia e la scuola che faccio. Rispondo sempre gentilmente ma non faccio domande, sono a disagio. Ho una ferita, diventata ormai crosta, sopra il ginocchio destro e lui sembra interessato, la tocca e mi chiede cosa mi sono fatta. Sono caduta dalla bicicletta, rispondo, ma poi m’irrigidisco perché, senza alcun senso, mi appoggia la mano sulla gamba come per bloccarmi. Non so cosa fare, ma scapperei se potessi; poi sposta in su lentamente la mano. Guardo fuori dal finestrino terrorizzata perché non so cosa aspettarmi da quel gesto. Poi, mentre con la mano va sotto la gonna, con un’altra voce mi chiede: “Di che colore hai le mutandine?” Allora reagisco con impeto, blocco la sua mano e il braccio e lui, come ustionato, si alza di scatto in piedi. Ho voglia di vomitare piangere capire sapere se ho fatto qualcosa che non dovevo, ma rimango incollata al finestrino, sollevata solo a vedere il posto vuoto accanto a me. La corriera rallenta a una fermata e nel mio campo visivo lo vedo in procinto di smontare e mi sembra di essere ormai salva. Prima di scendere si gira verso di me e mi dice: “Perdòneme matelota!”.

Sto quasi per rispondere che non fa niente, ma poi sto zitta, pensando che non doveva farlo, altrimenti non mi avrebbe chiesto scusa. A Pinè mi attendono sorridenti e festanti altri cugini - per loro sono la cugina cittadina - ai quali più tardi racconto che la corriera aveva imboccato male un tornante, frenando bruscamente. Un vecchietto aveva battuto la fronte, sanguinava e piangeva come un bambino. Anch’io ero caduta, avevo sentito molto male dentro, ma senza versare una lacrima, perché ormai ero grande.