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QT n. 4, aprile 2013 Cover story

Edilizia: il pozzo senza fondo

Altre centinaia di milioni all’edilizia, frantumata ed assistita. Occorrerebbero aggregazione ed innovazione, invece... avanti così.

Sono drammatici gli appelli degli imprenditori: “Il problema ormai è salvare le imprese”. E infatti alcune, storiche e ben strutturate, non si salvano, hanno chiuso aziende simbolo: la Garbari nell’edilizia, la Odorizzi nel porfido. Sono incontrovertibili i dati: dal 2007 al 20012 in Trentino hanno chiuso 3263 imprese del settore, un dato percentualmente peggiore di quello italiano, e proprio il 2012 è stata l’annata più negativa, a indicare un processo in ulteriore aggravamento. La giunta Pacher, a questi dati e a queste grida di dolore, ha risposto. Riversando sul settore centinaia di milioni, a incrementare il già preoccupante debito provinciale. Tanta generosità non è stata accolta benissimo dagli interessati: perplessi gli imprenditori, scettici i sindacati. Il problema è che tutta la politica industriale nel settore fa acqua, e la Pat persevera tamponando le falle a suon di milioni, senza risultati. Anche Enrico Zaninotto, già preside di Economia, che fu tra i padri dei massicci interventi anticongiunturali del 2008, esprime un giudizio decisamente negativo: “Si fanno operazioni di pura assistenza, senza affrontare i problemi di fondo”.

Linea Obama?

Questo in effetti è il punto. Quando, all’apparire della crisi, la giunta Dellai, d’accordo con sindacati, industriali e docenti di economia, decise di non seguire la linea Merkel (rigore, lacrime e sangue) ma quella Obama – massicci interventi pubblici per stimolare la ripresa – tutti applaudirono. Con qualche distinguo. Ci furono (vedi “La crisi in Trentino” su QT del gennaio 2009) quelli che già allora vedevano la crisi addirittura come opportunità, come momento di selezione naturale, che pota i rami secchi, le aziende obsolete, e rinnova il sistema. Proprio Zaninotto affermava che “è meglio sostenere i lavoratori invece delle imprese”; una volta che ne salvaguardiamo i dipendenti, le aziende decotte vanno lasciate al loro destino e gli appalti redatti in maniera che vincano i più capaci, quelli che sanno innovare e consorziarsi.

Quella che fu praticata invece fu la linea dell’assessore all’industria Olivi: “È nostro dovere salvare più imprese possibile”. E i risultati furono conseguenti. Il Trentino assorbì molto meglio dell’Italia i colpi della recessione, registrando costantemente in questi anni risultati migliori del 2% rispetto a quelli nazionali. Ma non nel settore costruzioni. Che evidentemente era strutturalmente fragile. Negli anni dal 2000 fino al 2007, infatti, le imprese edili trentine avevano registrato un autentico boom, in fatturato, numero di imprese e di dipendenti. Grazie anche alla politica di Dellai, per svariati motivi contiguo all’imprenditoria edile e sempre pronto ad investire i tanti soldi dell’allora ricca autonomia in gallerie ed edifici pubblici, o addirittura a comperare l’invenduto degli immobiliaristi, il settore (vedi anche “I grandi sprechi” su QT del gennaio 2011) si era sviluppato in maniera abnorme: “Il Pil prodotto dalle costruzioni è stato quasi costantemente superiore al 7% contro medie tra il 5 e il 6% registrate in Italia e nel Nordest” registrano con lucida amarezza gli stessi sindacati confederali. Tanti soldi, tante aziende, ma piccole e deboli: le ben 7000 imprese edili trentine, in media hanno 3,3 addetti – ci dice il Servizio staticopia di AlbertoGianera 10 aprile 2013 stica - e il 90% ha un giro d’affari inferiore al milione di euro. Questo sistema, debole, frantumato e assistito, anzi debole perché assistito, non ha retto alla crisi, più lunga e profonda del previsto. I dati sono molto chiari: nel 2007, prima della crisi, in Italia le costruzioni rappresentavano il 6,1% del Pil, nel ricco Trentino il 7,4%; nel 2011 in Italia sono scese al 5,4%, nel Trentino sono scese di più, al 6,3%; per il 2012 non ci sono dati definitivi, ma sarà un ulteriore tracollo.

E così nel 2013: in Trentino si prevede un PIL che non cala più per l’insieme dell’industria, ma che cala ancora, e vistosamente, per l’edilizia. Il sistema non lo si è voluto riformare e i risultati sono conseguenti. E ora la giunta Pacher insiste: ancora soldi, senza porre condizioni, senza spingere verso i consorzi o l’innovazione. Ai cosiddetti Stati generali dell’edilizia (in realtà una maxi conferenza stampa della Pat) emblematico è stato l’intervento del neo presidente dell’Ance (associazione dei costruttori edili) Giulio Miconel: “Le nostre imprese sono molto piccole, la Pat dia i giusti input ai funzionari perché, beninteso nel limite della legalità, le gare siano aggiudicate a loro e non a chi non viene dal nostro territorio”. Vale a dire: non abbiamo imprese competitive, aiutateci a sopravvivere ancora un po’ in queste condizioni. “Noi siamo contrari a questa mentalità - replica Maurizio Zabbeni della Cgil - Non si va da nessuna parte chiedendo di spezzettare gli appalti o di sospendere il libro di cantiere. Il mondo sta cambiando, è cambiato, non ci potranno essere tante aziende come adesso, così poco produttive, e nemmeno tanti lavoratori. Bisognerà stabilire quanto possa essere grande il settore. E poi selezionare le imprese, perché rimangano le più strutturate. E accompagnare i lavoratori in altri settori”. Ma la giunta Pacher non capisce, e va avanti sulle disastrose linee della giunta Dellai.

L’innovazione inutilizzata

Uno dei punti fermi e forti del quindicennio di Dellai è stata l’enfasi su ricerca e innovazione, applicata anche al settore edile. Molto si è detto (anche su QT) sui notevoli risultati ottenuti dalle case in legno progettate grazie alle ricerche dell’Ivalsa: è ancora del 2007 la casa in legno trentino di sette piani che nei laboratori giapponesi resistette, prima al mondo, a un terremoto di magnitudo 7,2 Richter. Un risultato, negli ambienti tecnici, di risonanza mondiale, e da allora Ivalsa ha implementato altre caratteristiche (prima tra tutte la resistenza al fuoco); insomma il Trentino è in grado di produrre abitazioni in legno di eccezionale qualità. Ma non a livello industriale. Nel novembre 2012 un esperto in commercializzazione sul mercato giapponese propose la creazione di un consorzio per la penetrazione delle nostre case in legno nel mercato nipponico come negli altri mercati asiatici, molto recettivi anche per motivi culturali: da loro l’abitazione in legno è la norma, da noi uno sfizio. Ma niente si è mosso. Esistono piccole industrie nelle nostre valli che producono, e bene, queste case. Ma sono numeri limitati, è una produzione di nicchia. E dal momento che non soffrono la crisi, questi piccoli imprenditori non hanno intenzione di cambiare registro, e men che mai di consorziarsi. La Pat potrebbe lei intervenire, per esempio vincolando i propri appalti alla realizzazione in legno. Ma non lo fa: significherebbe rivoluzionare l’intero settore. I sindacati - gli va dato atto - si sono mossi in questa direzione, presentando una serie di proposte che, scontando il ridimensionamento del settore, puntano su una sua qualificazione, richiedendo più controlli mirati, e appalti rivolti al risparmio energetico e alla nuova edilizia. “Su questo stiamo stanando le imprese, che si dicono d’accordo” commenta Zabbeni. La Provincia invece va avanti sulla solita strada: interventi assistenziali a pioggia. E con l’innovazione che rimane il fiore all’occhiello su un vestito ormai consunto.

L'irresponsabilità al potere

È esplosa come una bomba la notizia delle difficoltà della società Piedicastello della Federazione delle Cooperative, e della sua richiesta di aiuto alle Casse Rurali. In effetti la vicenda è clamorosa di per sé, ma è soprattutto indicativa di una politica industriale dilettantesca quando non irresponsabile, inquinata da miraggi di fantomatiche speculazioni immobiliari, e dal peso di pelose e perdenti subalternità agli onnipresenti e nefasti poteri forti. Riassumiamo gli ultimi fatti. Diego Schelfi, sventuratamente confermato per il quarto mandato alla presidenza di FederCoop, si rende conto che nella controllata Piedicastello spa i conti non tornano. Per capire cosa è successo dobbiamo fare un passo indietro, all’11 maggio 2004, quando viene costituita la Piedicastello spa, la cui proprietaria, attraverso azioni proprie (51%) o di controllate (un altro 19%) è l’intramontabile Isa, la nota finanziaria del vescovo. Una settimana dopo la sua nascita, Piedicastello firma con Italcementi spa un preliminare di vendita per il compendio immobiliare sull’omonima area, di cui finisce di perfezionare l’acquisto nel marzo 2005, pagando due tranche per un totale di 23.700.000 euro. Attenzione: Isa & soci non versano praticamente neanche un euro, acquistano accendendo mutui presso un pool di istituti di credito. La proprietà di Isa dura molto poco, alcuni mesi, perché il 20 dicembre 2005 la Piedicastello viene ceduta alla Federazione delle Cooperative del presidente Schelfi. Che della Piedicastello si assume tutti i debiti, e in più paga 2.188.050. Così, senza colpo ferire, Isa e compagnia escono di scena, realizzando una plusvalenza clamorosa: capitale investito 1.207.500, realizzati 2.188.000. Un utile di quasi un milione, un rendimento oltre l’80% in pochi mesi, rischi zero. Gli oneri passano tutti alla Federazione. Perché mai Schelfi (che si trova in clamoroso conflitto di interessi: è contemporaneamente anche consigliere di Isa, di cui fino al 2003 era addirittura presidente) acquista? Per realizzare sull’area una “cittadella della cooperazione”, cioè trasferirvi, ampliandoli, gli uffici di via Segantini. Un’operazione in stile dellaiano: demolire e ricostruire altrove, tanto i soldi ci sono. Ma FedCoop, per quanto grossa e potente, non è la Pat degli anni d’oro, o almeno non ne ha le apparentemente smisurate possibilità finanziarie: le varie articolazioni del mondo cooperativo non ci stanno a buttar via soldi in cemento, costruendosi nuove improbabili sedi. Che fare? La situazione non è tranquilla, perché i mutui bancari accesi da Isa (al tasso del 3%) e poi rinnovati da FedCoop, macinano interessi e la Piedicastello accumula perdite: la società nel 2009, nel 2010 e ancora nel 2011 è costretta a svalutare il valore iscritto a bilancio. Viene in aiuto l’amico Dellai, che decide di acquistare l’area per praticarvi i suoi soliti giochetti, trasferirvi edifici pubblici: così lì verranno costruiti il Liceo artistico Vittoria (effettivamente bisognoso di una sistemazione), Informatica Trentina (di cui peraltro si discute utilità e senso), l’lti Buonarrotti (anche se si sono appena spesi 5 milioni per ristrutturarne i laboratori) e l’Itg Pozzo (anche se è stata appena inaugurata la nuova moderna palestra con parcheggio sul tetto). Insomma, Dellai viene incontro ai debiti di Schelfi, coi soldi nostri, cioè indebitando noi. L’operazione si configura in questi termini: la Federazione demolisce, risana e cede l’Italcementi, mentre la Pat cede l’attuale rettorato (contiguo alla Rurale di Trento, che vi si dovrebbe espandere) e l’ex-Dogana (da liberare dalla presenza del Centro Sociale Bruno, per far posto a società di FedCoop, anzitutto Phoenix, la ricca software house che supporta le banche di credito cooperativo di mezza Italia) e in più un conguaglio di 5,992 milioni. Ma la buona volontà di Dellai non basta, l’operazione è complessa; oltre alla cacciata del Centro Sociale (alla cui mancanza di collaborazione si cerca di far risalire le difficoltà), prevede trasferimenti, cambi di destinazione urbanistica, risanamenti. E soprattutto i soldi cash che la Federazione dovrebbe incassare, 6 milioni, sono pochi rispetto ai debiti accumulati. Intanto gli interessi continuano a crescere, anche perché, per liberare e risanare l’area, si sono spesi altri soldi. Di qui la trovata di Schelfi: chiedere un “sacrificio” alle Casse Rurali, attraverso l’apertura di un apposito mutuo al tasso amicale dell’1%. E qui si scatena il putiferio. Perché mai le Rurali, già in difficoltà per conto loro, dovrebbero aderire? E perché i normali imprenditori trovano problemi ad avere mutui al 3, 5, fino al 7%, mentre la Federazione dovrebbe assorbire capitali all’1% per una strampalata operazione immobiliare? E ancora: perché Phoenix, che realizza utili consistenti, dovrebbe riversarli in una nuova sede? E perché, a maggior ragione dovrebbe fare un ampliamento megalomane la Cassa di Trento, che come tutte le banche non sta attraversando un periodo di particolare prosperità? “Sono lavori per la città, su un’area ferma da trent’anni, e adesso me le devo anche sentire?” si difende Schelfi. No, non sono lavori per la città. Si tratta di un’operazione speculativa, eseguita anzitutto per Isa (che difatti sarà l’unica a guadagnarci). Un’operazione squinternata, un investimento di 30 milioni senza un progetto vero, un preventivo dare\avere, un’idea sensata di dove si vada a parare. Schelfi, non a caso rieletto per la quarta volta, è l’emblema di una classe dirigente: nel cda della Federazione, come mai nel non lontano 2005 hanno approvato una fesseria del genere? Ma che razza di imprenditori siedono su quelle poltrone? Forse di tratta di una classe dirigente che ha come stella polare non l’economia, ma la contiguità ai potenti: Dellai, la Curia. In tempi di crisi e di Autonomia con meno soldi, non basta proprio più.