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Angelica

Morta, ma rivive per noi

All’inizio vien da pensare che la rapidità di affabulazione di Andrea Cosentino, a scapito del “bell’eloquio” e della “perfetta comunicazione”, sia un banale trucchetto cabarettistico per impedire al pubblico di riflettere sulla scena spoglia, sull’estrema semplicità dei materiali di scena (schermo tv, parrucca, vestitaccio da sposa, pallina rossa, bamboline Barbie e Ken...), sulla solitudine dell’attore nel tentativo di rievocare molteplici storie e animare un mondo di personaggi.

La ratio di questa operazione (per la regia di Andrea V. Franceschi) si comprende meglio quando Cosentino cita a più riprese un articolo di Pasolini sul rapporto tra cinema e realtà, fra tempo cinematografico e tempo biografico, distaccandosi nettamente dalle due cornici-flusso narrative in cui già il pubblico è stato immerso. La tecnica recitativa dell’autore-attore (che cita direttamente Fo e ne adotta il gergo “grammelot”) sembra allora consistere nel voler trascinare spettatori e spettatrici in un vortice di narrazioni, dalle quali egli entra ed esce a ritmo sempre più frenetico: l’incontro tra un artista in cerca di lavoro e un impresario teatrale all’amatriciana; le riprese di un B-movie nella casa di una vecchietta abruzzese; la melodrammatica e stereotipata storia narrata nel B-movie; il discorso critico pasoliniano. Teatro, televisione, cinema, estetica del cinema: ricco di reiterazioni, il gorgo comunicativo argutamente gestito da Cosentino conduce il pubblico a meditare, con lui e con Pasolini, sulla natura, sull’estetica e sulla valenza della comunicazione artistica, dipanando un ragionamento in cui prevale, senza tetraggine ed anzi con apprezzabile lievità, il discorso sul destino mortale degli individui e sulla falsificante immortalità della narrazione artistica. Bravo.

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