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QT n. 2, febbraio 2012 Monitor: Teatro

Trentini & trentoni

Istrionico, arguto Castelli

A. Castelli

Tutto proteso, quasi inarcato, come un mastro artigiano, a scolpire vizi e virtù dei suoi pittoreschi conterranei: “trentazzi”, inteso come fiammazzi, “trentonesi”, come nonesi e “Trentombra”, quelli della val di Cembra.

Un’etnia selvaggia e polentocentrica, nata attorno alle sponde dell’Ades, che Castelli accarezza senza schiaffeggiare, asciugando loro il moccolo, come si fa con i bambini, trastullandoli ritmicamente sul dondolo di quel nostro dialetto con la e stretta, un po’ timido, a tratti allegramente e musicalmente onomatopeico.

Una carrellata di rubicondi ritratti che va dal giovane “zitadino” emulo del turista romano vicino di casa, al giovane montanaro con il gippone, figlio di albergatori, il Tullio, che con una sola frase tradisce cent’anni di riscatto da un passato da eterni soldati dei nostri nonni senza identità, a combattere per forza, o di qua o di là.

Il refrain infatti - “Ma noi sem taliani,... o sem todeschi?” - ritorna puntuale nel racconto e ne disegna l’architrave, piena di tarli, ma proprio per questo amata e tutelata, di un popolo sempre in bilico tra un irredentismo troppo erudito e un pangermanesimo troppo ardito. Ne scaturisce un trentinismo dell’”Ognun en tel so brodo, ma noi sem i meio”, pieno peraltro di buoni sentimenti, buoni e riservati. Talmente riservati che nessuno li vuole mostrare.

Sullo sfondo il ritratto dei grandi che hanno fatto la storia e che hanno animato il dibattito culturale in terra tridentina, Cesare Battisti e Andreas Hofer, quelli sì trattati da Castelli con rigore ed autorevolezza e, quel che più conta, senza partigianerie di sorta.

Quasi due ore di monologo e nemmeno l’ombra di una sbavatura, di una pausa non studiata, di un passaggio non accompagnato da una teatralità robusta, mai stentorea o asfittica. Il finale, nel piccolo idilliaco teatro di Aldeno, sfuma su una trovata ad effetto: una sommessa intonazione dell’attore sulle note dell’inno al Trentino, in un crescendo corale con la platea, che in tempi di calci “taliani” all’Autonomia dilaga nel cuore di tutti, irredentisti e pantirolesi, una sorta di coro del Nabucco prima dei moti del ‘48.