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La diversità che ti rapisce

Tra fascinazione e timore, viaggio tra le popolazioni dell’Omo (Etiopia) e la loro umanissima, estrema diversità.

Ragazza Erbore
Donne Hamer al mercato
Ragazze Hamer
Ragazzi Karo al bordo del villaggio
Giovane coppia Karo sulla riva del fiume Omo
“Mi affascina questa ragazzina: il suo sguardo vivo, la sua intelligenza, l’intraprendenza...”
Ragazzini Karo
Donne Mursi
Donne Mursi
Donne Mursi
giovani Mursi
giovani Mursi
giovane Mursi
“A Hamer girl” sussurra l’autista

Addis Abeba, 11 agosto.

Il trafficato viale che costeggia il mercato è diviso da uno spartitraffico in pietra, alto 30 cm e largo mezzo metro. Su di esso alcuni hanno il loro misero negozio, le poche merci appoggiate su mezzo metro quadro di pietra. Altri hanno l’abitazione: un uomo giace sdraiato, con due teli di plastica, uno sopra e uno sotto, ad esile protezione. È assopito. Pioviggina. Non me la sento di fare la foto.

Territorio Erbore, 15 agosto.

La ragazza Erbore si avvicina al nostro fuori strada. Slanciata, il viso ovale, tante collane di perline al collo, il capo ricoperto da un telo ma il seno, splendido, nudo. “Foto... shop” dice.

Noi stiamo per partire. “Foto”? Ma nel villaggio, così bella, l’abbiamo già fotografata, e più volte. “Foto - insiste - shop”. Io e Enrico ci guardiamo: “Photoshop? - ridiamo - vuole Photoshop?”

Ma lei non ride. È accorata. “Foto - e ora si tocca il petto - shop”. Poi ancora più esplicita, con la mano sfiora il bel seno “Foto...”: so che è questo che ti interessa, fotografalo pure.

Questo lo capisco, è l’altra parola che mi disorienta. Sono imbarazzatissimo. Nella sua offerta è candida, financo toccante, vorrei venirle incontro, ma non so cosa, non so come. Lentamente la macchina si avvia, vedo la delusione sui suoi occhi.

Riprendiamo il percorso sulla pista argillosa. E io continuo a pensare. È solo dopo diversi chilometri che, di colpo, capisco. Shop, no, è sbagliato. Nel suo improbabile inglese era “soap”, sapone. Voleva una saponetta. Per essere pulita, profumata. Accidenti. Mi mordo le mani. Di saponette degli hotel ho pieno il necessaire, il mio amico Carlo ne fa collezione, gliene porto ad ogni viaggio.

Fotografami pure il seno, ma fammi essere, per qualche giorno, più pulita, più desiderabile.

Eventuali foto pseudoerotiche mi interessano proprio poco, estorte così poi, con la ricchezza, meno che mai. Ma quanto darei per aver capito prima, ed avere il privilegio di esaudire quel piccolo, intenso, sacrosanto desiderio.

15 agosto, territorio Hamer.

Il fuoristrada arranca in salita, il motore Nissan, male alimentato dalla pessima benzina che le multinazionali riservano all’Etiopia, esprime solo una frazione della sua potenza. Procediamo piano, e vediamo i dettagli. In senso inverso scende, con passo elastico, un giovane: lunghe gambe affusolate, una minigonna marron con iscrizioni beige, un corpetto beige con iscrizioni marron, il volto delicato e forse truccato, i capelli raccolti in uno chignon con in cima, bianca e vaporosa, una piuma di struzzo. Insomma, un esemplare da Gay Pride. Invece no: sulle spalle porta un Kalashnikov. Ed è prontissimo ad usarlo, in caso di contrasti per l’acqua, i pascoli, il bestiame. Le nostre categorie sul linguaggio del corpo qui stanno a zero.

15 agosto, strada per Turmi.

Il primo fuoristrada, ammiraglia della nostra piccola carovana, si è fermato a bordo pista. Accostiamo anche noi, e capiamo subito. “A Hamer girl” sussurra l’autista, una ragazza Hamer. Ci sembra un prodigio: forse non è bellissima di suo, ma a noi appare semplicemente splendida. Un gonnellino fatto da due pelli di capra tenute insieme da cinture di cuoio, perline, conchiglie, che sottolineano le lunghe gambe nervose, affusolate; i capelli impastati con grasso e argilla raccolti in un caschetto di cannoli, di un color rosso ocra che prosegue sul volto, il collo, le spalle; l’orgoglioso seno evidenziato da collane; e poi pendenti, collari, bracciali, cavigliere... Dietro modico compenso (due bir, otto centesimi di euro) si fa riprendere di buon grado, anzi si capisce, è lì per questo: è simpatica, spigliata, noi le stiamo attorno, la guardiamo rapiti, lei ne è contenta, ride, scherza, la lingua è una barriera subito travolta, le battute si incrociano e susseguono.

Torniamo in vettura contenti. “Beh, è chiaro, si è messa lì per i turisti - cerco di razionalizzare, spremendo un po’ di scetticismo - Con l’acconciatura delle grandi occasioni. Tutto originale, certo, ma figurarsi se una è normalmente agghindata in quella maniera”.

Invece mi sbaglio. Arriviamo alla cittadina di Turmi, nel momento del mercato. È in mano alle donne Hamer, che vendono, comperano, trasformano i cereali in farina, discutono, trattano. Sono in duecento, trecento, variamente affaccendate: e sono tutte - splendenti le giovani, dignitose ed eleganti le anziane - vestite e truccate come la ragazza a bordo strada.

16 agosto, sponda sinistra del Fiume Omo, villaggio Karo.

Si sono messi in posa, scenografici, su dei tronchi con alle spalle un maestoso meandro dell’Omo: truccati di bianco, come fantasmi, il colore a evidenziare un aspetto, un particolare, il volto, un seno, il torace, il pene. Ormai lo sappiamo: si mettono in posa per noi, ma non si truccano per noi; il loro gusto del bello, il senso di identità che promana da ogni trucco, da ogni addobbo, è una cosa personale, che riguarda, nel profondo, ognuno di loro.

Con le nostre immagini ci portiamo dietro qualcosa di questa loro personale bellezza. Ne sono contenti: per i soldini che diamo, ma anche per il nostro stupito apprezzamento.

Fotografo. Noto una ragazzina, circa undici anni, sveglia, che mi tiene d’occhio. Finisco gli spiccioli, e ho ancora da fotografare. Non so che fare. La ragazzina capisce subito: “Vuoi cambiare?”. È proprio sveglia.

La seguo alla sua capanna, e mi fa entrare: larga e bassa, bisogna stare chinati o accucciati, i legni ricurvi della parete circolare formano un riparo relativo, con tutti quegli interstizi, ma la penombra dà un’atmosfera di calda intimità. Tra le poche povere cose, una borsa, da cui estrae i soldi e, assorta, si mette a contare. Mi affascina questa ragazzina: il suo sguardo vivo, la sua intelligenza, l’intraprendenza.Attacco un discorso.

“You speak english?”

“No english”

“Go to school?”

“No school”.

Niente inglese, niente scuola. Quei profondi occhi intelligenti per una vita di pecore e capre. Non meriterebbe di più?

Voglio farmi capire: pecore... “Beee... bee” imito il belato. Ci mettiamo a ridere.

“Beee?” chiede divertita. “Come quello?” e indica un agnellino di pochi giorni, accovacciato in un cantuccio.

“Yes. Beee... sheep in english”

“Sheep” ripete pronta.

Adesso possiamo capirci: “You: no English, no school... Sheeps, only sheeps”. Una vita solo di pecore. Ma le può bastare?

Lei capisce: “Sì” risponde. Poi riflette per un attimo, gli occhi si fanno più profondi, ribadisce convinta: “Sì”. E le labbra si increspano in un piccolo sorriso.

17 agosto, Jinka.

Il piccolo museo etnografico della valle dell’Omo, a Jinka, è stato realizzato da antropologi tedeschi. Gli oggetti esposti sono miseri, qualsiasi donna Hamer ne indossa di più belli. I dvd proiettati sarebbero molto interessanti: sul monitor scorrono le riprese di una sorta di assemblea dei Mursi, con un durissimo scontro generazionale, gli uomini maturi che rimproverano ai giovani di essersi lasciati razziare il bestiame dai Bumi (“Le vacche sono sparite, e voi, voi ora siete qui?” vale a dire, dovevate morire). Ed altri filmati ancora riprendono le cerimonie come il mitico “salto del toro” degli Hamer; ma non sono in vendita. Enrico prova ad insistere, i dvd li comprerebbe tutti, come anch’io peraltro, ma non c’è niente da fare. Museo del piffero.

Poi mi metto a leggere dei grandi riquadri appesi alle pareti. E si aprono nuove conoscenze, sconcertanti. Sono i resoconti di più dibattiti organizzati con donne delle varie popolazioni dell’Omo, convenute a Jinka. Tema, la condizione femminile. E così emergono aspetti sottaciuti: a iniziare da quello, devastante, delle mutilazioni genitali sulle ragazzine. Asportazione del clitoride, talora con taglio delle piccole labbra. Conseguenze: trauma fisico e psichico, riduzione o scomparsa del piacere sessuale.

Il dibattito tra le donne è sincero, ma pare improduttivo: “Devi farlo, altrimenti al villaggio nessuno ti considera più, sei come un animale” dice una. Un’altra tenta di minimizzare, ma fa solo accapponare la pelle “Una volta si tagliava tanto, ora si taglia molto meno”.

Io non capisco. Abbiamo incontrato donne solari. Non solo, anche sensuali quando non maliziose. Con i ragazzi, una Hamer è protagonista, conduce il gioco. “Durante le danze, la ragazza Hamer tocca con il piede l’uomo che le piace, e i due si appartano” ci aveva spiegato la guida.

Com’è possibile tutto questo in donne il cui piacere è stato schiantato? Come stanno assieme queste cose?

Adelmo, la nostra guida etiope di padre italiano, minimizza: “Ma no! L’escissione oggi è reato! Ci sono grandi cartelli che lo dicono, c’è una forte propaganda contro!” Ma al Museo veramente, scrivono... “Al museo, al museo... Nella realtà ci sarà ancora nei villaggi”. Appunto. Sono desolato.

Con gli altri del gruppo finiamo con il parlare poco dell’argomento. Ci si intristisce subito.

Qualcosa di più veniamo a capire sulla forza d’animo di queste donne.

Nuccia non ci ha seguiti su un precario traghetto oltre il fiume, dai Bumi, è rimasta sulla riva sinistra dell’Omo, in un villaggio Karo. E, da popolana verace, ha fatto subito amicizia con le donne. Si sono confrontate sulla cosa più importante, primigenia: il parto. Con le parole e la mimica. Così, quando lei ha mimato le urla che alle occidentali strappa il travaglio, le Karo, severe, hanno scosso la testa: “No”. Non si urla. Una donna, una donna vera sa sopportare, dominare il dolore. Se no, che donna è?

Così nelle testimonianze riportate al museo, più volte ricorre la rivendicazione: “Noi donne siamo forti, la sofferenza non la temiamo”. Quando un giovane Hamer, per essere accettato tra gli uomini deve superare il “salto del toro” (una pericolosa corsa sulle schiene di una dozzina di tori affiancati), nella cerimonia le sue sorelle vengono frustate a sangue. “Certo - rivendicano orgogliose - tuo fratello subisce una prova del genere e tu non ce la fai a soffrire un po’ per lui?” Una ragazza sulla strada ce le ha mostrate le profonde cicatrici sulla schiena: esibite con tranquilla fierezza.

Un altro gruppo di italiani ha assistito a un “salto del toro”. Cerimonia quasi sicuramente fasulla, imbastita per loro, ma che comunque conteneva elementi di verità. E quello che colpiva, dalle testimonianze e dal filmato, era l’atteggiamento delle ragazze: a provocare gli uomini “Allora, la frusta la usate sì o no?”. E al fustigatore, non pienamente convinto: “È questo tutto quello che sai fare? E dacci dentro!”.

18 agosto, Parco del Mago, territorio Mursi.

Andiamo a un villaggio Mursi, in teoria il momento clou del viaggio. I Mursi: brutti e cattivi, la nostra guida Adelmo è un po’ in tensione, ci scorta un ranger armato.

Ci aspettano fuori dal villaggio. È una specie di show, soldi (qui la tariffa è aumentata) contro foto, ma sotto c’è di più, il nostro stupore e il loro esibizionismo si giocano su nuovi registri. Non più l’inusitata eleganza degli Hamer o la fantasmatica corporeità dei Karo: qui ci si manipola il corpo per provocare disgusto, timore, repulsione. Le donne soprattutto, con i crudeli dischi labiali; e quando se li tolgono, con le rivoltanti labbra penzoloni. Quando sono giovani, delle geometriche scarificazioni (rilievi della pelle ottenute attraverso cicatrici) sottolineano parti del corpo, a iniziare dai seni; da vecchie si addobbano con ossa, zanne, pendagli, vegetali, corna, si dipingono il volto, a suscitare inquietudine e timore. Sembra un film gotico-fantasy: la persona che hai di fronte ti ricorda il Generale Supremo dell’Esercito del Male, e invece è una vecchia contadina.

Più sobri gli uomini: in mano lunghi bastoni, strumento per governare le bestie ma anche arma, il corpo e il volto tenuemente dipinti, talora il capo ornato con un paio di piume, o il pene, dipinto, esibito.

Mi sento confuso e vagamente a disagio. Questi non sono figuranti, sono persone; epoche storiche distanti da noi, ma persone vere; bisognerebbe capirne qualcosa, noi ci accontentiamo di emozioni forti ma tutte superficiali.

Andiamo via abbastanza presto, con la guida che tira un sospiro di sollievo. A un certo punto vedo un gruppo interessante, faccio fermare la macchina e scendo; Mariangela vuole attirare la mia attenzione su qualcosa e suona il clacson. La guida, nella macchina più avanti, non ci vede arrivare, sente il clacson e si allarma. Torna indietro: c’è tensione.

Due anni fa i Mursi hanno sparato a dei turisti spagnoli. Alcuni mesi or sono, tra di loro, si sono uccisi in quattro. Siamo qui di mattina perché di pomeriggio gli uomini bevono la loro birra, e poi non si controllano. Sì, sono i cattivi.

Due volte, in andata e ritorno, incontriamo la sezione Mursi di quella che abbiamo chiamato la Street Dance Company: ragazzini di ambo i sessi, che in tutto il sud dell’Etiopia aspettano le macchine dei turisti, esibendosi a bordo strada in numeri di danza straordinariamente fantasiosi, in gruppo, a testa in giù, sui trampoli, nella speranza di ottenere due soldi o una penna in cambio di qualche foto. I bambini e bambine Mursi sono carinissimi: dipinti di bianco, sciamano nella strada cantando, ballando, ridendo e battendo le mani, mi sento allargare il cuore; ma è meglio non fermarsi. Ma sono proprio così cattivi? Non è che stiamo esagerando?

Poi ci sono quelli ancora più cattivi.

La Lonely Planet scrive: “Visitare i Mursi e il Parco del Mago è impresa dura; visitare i Surma e il Parco dell’Omo (dai nomi dei due fiumi ndr) è masochista”. Bene, una decina d’anni fa il mio amico Nicola con altri tre viaggiatori trentini è stato per dieci giorni tra i Surma. E non in fuoristrada ma a piedi, con le tende caricate sui muli. Prima della mia partenza avevo parlato con lui, e mi aveva magnificato quella sua esperienza, un momento alto, di conoscenza e umanità. Francamente, mi era sembrato eccessivo, avevo pensato a un facile entusiasmo per l’esotico. Oggi invece ha tutta la mia stima, con una punta d’invidia. Lui e i suoi compagni di avventura sono riusciti a conoscere, a convivere, con i presunti cattivi del pianeta. Che ovviamente, tanto cattivi non sono.

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