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QT n. 16, 2 ottobre 2004 Servizi

Sono gli elettori a dover giudicare gli amministratori

A proposito di corruzione, giudici e politici.

Ho letto la sentenza del Tribunale di Trento che il 30 marzo scorso ha condannato l’ex assessore democristiano Pierluigi Angeli a tre anni e sei mesi di reclusione per peculato. Il fatto è uno di quelli che fanno parlare e lasciano un segno. Gli avversari politici della DC, quali anche noi siamo, potrebbero utilizzarlo come un efficace argomento di propaganda, specialmente in questa intensa vigilia elettorale. Tuttavia io credo che su tale sentenza convenga indugiare per farne una valutazione non superficiale, perché essa fa sorgere interrogativi che riguardano al tempo stesso la correttezza del costume dei nostri amministratori, ma anche i rapporti fra i poteri dello Stato ed i confini che li mantengono distinti. (…)

In questi giorni è stato arrestato Sereno Freato, che fu stretto collaboratore di Aldo Moro, perché implicato nel colossale traffico illecito dei petroli. Da ciò che trapela sui giornali risulta che una parte dei ricavi di tale contrabbando finiva nelle casse della DC, o della corrente morotea.

Sempre in questi giorni è stato messo in libertà provvisoria quell’Adriano Zampini di Torino, che subito ha riferito alla pubblica opinione le sue esperienze di imprenditore dell’intrallazzo, specializzato nel combinare affari con gli enti pubblici attraverso la più raffinata tecnica delle tangenti corrisposte agli uomini politici, anche di sinistra. (…)

Sono le notizie (e non tutte) di un giorno. Ma è notorio che esistono studi professionali di assistenza per pratiche ministeriali, ai quali i clienti pagano onorari che dissimulano tangenti per i partiti o le loro correnti; che le imprese che si accingono a stipulare contratti con lo Stato o gli enti pubblici, nel calcolo del prezzo includono preventivamente la tangente, che viene versata ai partiti di maggioranza a contratto concluso, con la innocente forma, dunque, di un contributo liberamente offerto.

E’ ben presente alla nostra memoria l’incredibile tesi sostenuta, qualche anno fa, dal senatore Bettiol quando, nella giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, per salvare l’amministratore di non ricordo quale partito dall’accusa di avere riscosso illecitamente del denaro, aveva suggerito di non considerarlo punibile perché lo aveva fatto per il partito.

Dunque è certo che i partiti di maggioranza (e talvolta anche il PCI dove è maggioranza) usano rifornirsi di fondi esigendo contributi da privati in cambio di favori concessi nell’esercizio dei pubblici poteri. Pare che si tratti di una pratica conosciuta in tutto il mondo, ma ciò non la rende né legittima, né accettabile. Essa è comunque la conseguenza diretta del fenomeno della cosiddetta occupazione delle istituzioni da parte dei partiti di maggioranza.

Questi ultimi, ridottisi ad essere nient’altro che imprese per la gestione del potere, usano del potere medesimo per ricavarne i proventi necessari a pagare i loro crescenti costi di impresa, rappresentati dal personale fatto di professionisti della politica, dalle sedi, dalla stampa e propaganda. Ed attorno a questa attività occulta dei partiti è fiorito una folta schiera di mediatori, prestanome, esperti in pubbliche relazioni, e maneggioni vari che esigono, come è giusto, rilevanti quote di partecipazione. (…)

Sebbene il fenomeno che ho descritto sia molto diffuso, non per questo esso è accettato come normale dalla coscienza pubblica. Anzi, una delle ragioni che alimentano la cosiddetta sfiducia nelle istituzioni, io credo debba cercarsi anche in questa ostinata riluttanza ad accettare la pubblica corruzione come un normale mezzo di governo. E’ ben vero che i corruttori l’accettano, dal momento che vi ricorrono, ma anch’essi mostrano di subirla per necessità e con un vago sentimento di disprezzo.

Ma soprattutto, partecipi del sentimento popolare, e spronativi dalla loro funzione, sono i magistrati che, da qualche anno a questa parte, hanno cominciato a reagire, aprendo su tutto il territorio della Repubblica, un rilevante numero di istruttorie contro pubblici amministratori. Poiché, come in fisica, anche nelle relazioni umane vale la legge che ad ogni azione corrisponde una reazione eguale e contraria, era facile prevedere che, al grado estremo dell’azione illecita, corrispondesse una reazione repressiva talvolta egualmente estrema. E’ ciò che è accaduto.

Si è lamentato da taluno l’uso precipitoso degli ordini di cattura contro pubblici amministratori, ed anche l’esecuzione collettiva e spettacolare di tali provvedimenti. Si tratta peraltro di eccessi che possono trovare la loro spiegazione nella gravità dei fatti perseguiti e nella notorietà delle persone prese di mira. Più rilevanti mi sembrano gli eccessi di altro tipo, come le recenti iniziative delle Procure di Roma e di Milano, e di quella di Rimini, che hanno avviato inchieste su atti delle rispettive amministrazioni comunali del tutto esenti da illiceità penale, come si è rapidamente assodato a Milano ed a Roma e come, credo, si accerterà a Rimini. Sono questi eccessi che, per un verso, rivelano in taluni magistrati la tendenza ad interferire in un ambito di attività che esula dalla loro competenza, e, per altro verso, hanno offerto il pretesto a certi gruppi politici per avanzare proposte di controllo politico sugli uffici del Pubblico Ministero.

Sia la tendenza di questi magistrati ad esercitare un ruolo di "supplenza" nei confronti dei carenti meccanismi di autocontrollo amministrativo, sia la risposta di questi ambienti politici che, col pretesto di contenere quella tendenza, mira a controllare tutti i pubblici ministeri, mi sembrano fenomeni assai pericolosi.

L’invadenza dell’ordine giudiziario nell’ambito delle funzioni proprie degli organi amministrativi passa prevalentemente attraverso alcuni reati, primo fra tutti il peculato. Si ha peculato quando l’amministratore pubblico si appropria del denaro pubblico di cui dispone. In questa ipotesi il pericolo che stiamo esaminando evidentemente non esiste. Ma si ha peculato anche quando il pubblico ufficiale "distragga" il denaro pubblico a profitto di terzi. Si noti che "distrazione" significa l’uso del pubblico denaro per fini diversi da quelli stabiliti dalla legge.

Orbene bisogna tener presente che ai tempi nostri grandissima parte dell’attività amministrativa consiste nella erogazione di denaro a profitto di terzi. Finanziamenti di opere pubbliche, incentivi ad attività economiche, assistenza e contributi, sono tutte attività amministrative che si risolvono in pagamenti di denaro a privati. Tali pagamenti devono avvenire per i fini ed in conformità alla destinazione voluta dalla legge. Ma i fini e la destinazione voluta dalla legge non sono sempre individuabili con la precisione dei concetti matematici, ed è inevitabile che le previsioni della legge concedano un margine di discrezionalità all’amministratore. Entro questo margine di discrezionalità si esercita la funzione di governo, che è retta dal criterio di opportunità, e quindi implica un certo grado di opinabilità, e perciò può essere bene o male esercitata a seconda dei punti di vista. (…) Di essi risponderà agli elettori, non al Pubblico ministero. Se così non fosse, sarebbe totalmente annullata la discrezionalità della funzione amministrativa, la sua utilità pubblica, e non si troverebbe più nessuno disposto a fare il consigliere comunale.

A me pare che tale sfera di autonomia discrezionale del pubblico amministratore debba essere salvaguardata. Sembra una affermazione persino ovvia, ma invece è vero che in alcuni casi l’indagine del giudice penale sui fini voluti dalla legge, per misurare su di essi se vi sia stata "distrazione" del pubblico denaro, è penetrata fino ad un punto tale da annullare ogni legittima autonomia di scelta, ogni valutazione di opportunità del pubblico amministratore.

Mi pare che questo sia stato anche il caso della sentenza che ha condannato Pierluigi Angeli. Questi ha erogato un contributo per la costruzione di una porcilaia. La porcilaia è stata costruita ed ha anche funzionato per alcuni anni, e quindi è fallita. E’ stata una scelta di impiego di pubblico denaro con un rischio calcolato male, ma non in contrasto con il fine voluto dalla legge che era quello di promuovere le attività economiche del settore. E tuttavia è stato condannato perché la cooperativa destinataria del contributo, pur essendo qualificata come agricola dall’apposita commissione regionale, non era formata in prevalenza da agricoltori. Il sindacato, su aspetti secondari e formali come questo, a mio avviso invade la sfera di autonomia discrezionale del pubblico amministratore, e realizza una vera e propria supplenza di poteri.

Tutto diverso sarebbe se il contributo fosse stato accompagnato dal pagamento di una tangente. Ma la corruzione non ha trovato una prova sufficiente. Leggendo la sentenza è difficile sottrarsi all’impressione che il Tribunale abbia considerata tutta la vicenda sotto l’influenza della diffusa opinione che, di regola, ad ogni pubblico contributo corrisponde una privata tangente. Ma l’onere della prova spetta ancora all’accusa. Il giudice deve assegnare a se stesso i limiti della propria funzione, e non può cedere alla tentazione di usare impropriamente dei suoi poteri per mettere ordine in una sfera di poteri che gli è estranea. Diversamente si corre anche il rischio di fomentare la propensione di certi politici a stabilire un controllo sul Pubblico ministero.

E’ un’idea, questa, che non è stata manifestata solo dal PSI. È convocata anche da autorevoli esponenti della DC e del PSDI. Io credo che debba essere combattuta fieramente. (…)

Una magistratura indipendente presenta il rischio di qualche errore. Anzi non bisogna dimenticare che l’ordine giudiziario è basato sul principio del triplice grado di giudizio proprio perché presuppone la fallibilità del giudice. Vi sono altre misure possibili per ridurre ancora tali rischi, come la riforma dei poteri del P.M. o una diversa disciplina della organizzazione delle Procure. Ma qualsiasi innovazione che limitasse l’indipendenza della Magistratura per riportarla sotto il controllo del potere politico, comunque cammuffato, costituirebbe un pericoloso arretramento (…).

4 maggio 1983