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Il diradarsi dell’oscurità

Il Trentino e i trentini nella seconda guerra mondiale

Lorenzo Gardumi

“Qualsiasi somaro crede di sapere cos’è la guerra, specie quelli che non l’hanno mai fatta. Le cose ci piacciono semplici e lineari: buoni e cattivi, eroi e canaglie...e ce ne sono tanti degli uni e degli altri ma quasi mai sono come ce li immaginiamo noi. [...] Quello che vediamo e facciamo in guerra...la crudeltà è incredibile...ma in qualche modo dobbiamo farcene una ragione e per fare questo occorre che la verità sia resa semplice...e con pochissime parole”. Così, all’inizio di “Flags of our fathers”, Clint Eastwood cerca di rendere attraverso le scarne riflessioni di un reduce la complessità e l’orrore della guerra.

Contrariamente alle affermazioni di Eastwood, la ricerca storica deve prendere tutt’altra strada, deve cercare di avvicinarsi alla realtà di quei fatti complicandoli e allargandoli il più possibile. Dobbiamo cercare di comprendere la banalità del male, la vita al fronte o in prigionia, nelle camere a gas come sotto i bombardamenti e nelle condizioni difficili di una quotidianità vissuta sempre sul filo.

Nei tre volumi curati dal Laboratorio di storia di Rovereto - “Il diradarsi dell’oscurità. Il Trentino, i trentini nella seconda guerra mondiale 1939-1945” -, le moltissime parole scritte dai soldati al fronte o dai civili a casa nelle lettere e nei diari servono ad approfondire e non a semplificare. Le foto contribuiscono a fissare eventi, persone, fatti, perché senza di esse, come dice Ando Gilardi, “niente è veramente successo”, perché dietro le immagini ci sono le esperienze frantumate e disperse di centinaia di persone, dietro i loro volti ci sono sentimenti, tragedie personali e collettive, il senso di una violenza compiuta e/o subita. Non voglio dilungarmi sulle fonti utilizzate da Diego Leoni e dagli altri ricercatori del Laboratorio. Già Gustavo Corni ne ha fornito un quadro esauriente recensendo il primo volume dell’opera su Questotrentino nel giugno scorso. Alla presentazione della terza ed ultima fatica - “Il diradarsi dell’oscurità 1944-1945” - tenutasi a Trento qualche mese fa, lo storico Marco Mondini ha sottolineato una volta di più la peculiarità e la validità di un lavoro estremamente articolato non solo in base ai documenti ma rispetto alla vastità delle esperienze riportate, eterogenee e multiformi. Attraverso il vissuto dei trentini, ritroviamo e incrociamo la vita degli italiani e degli europei più in generale. Partendo da un oggetto di studio specifico - il Trentino, i trentini - si giunge così a fornire uno scenario più vasto, una memoria condivisibile e riproducibile ben al di là dei confini provinciali/nazionali. Del resto, l’ultimo conflitto mondiale ebbe questa valenza, il suo essere intrinsecamente globale e ideologico non poteva non coinvolgere milioni d’individui. Tutti furono più o meno trascinati nel suo turbine. La guerra era dappertutto, abbattendo distinzioni (tra fronte bellico e fronte interno), mobilitando le società e violentandole globalmente, disarticolando il singolo e le comunità, in una parola il tessuto sociale di una collettività.

Fino a qualche anno fa, stonava quindi la raffigurazione di un Trentino isola felice, di una popolazione lambita solo superficialmente dalla tragedia bellica. Almeno sino al settembre 1943, la situazione fu questa. La guerra si svolgeva su teatri lontani, sul fronte francese e su quello greco-albanese, in Africa e nei Balcani, sul fronte orientale. A casa rimanevano le donne, i giovani e gli anziani, in attesa di notizie dai propri cari. La Chiesa e il partito fascista pensavano a mantenere la coesione sociale, a mobilitare idealmente e materialmente la collettività per lo sforzo bellico. Istituzioni comunque spesso incapaci di comprendere il dolore di una madre per il figlio caduto sul fronte africano (come nel caso del bersagliere Cattani) o di far fronte alle ferite fisiche e psicologiche dei reduci. E poi la lontananza e la prigionia nelle mani del nemico. Migliaia furono i soldati italiani, e dunque trentini, che, dopo l’esperienza africana, a Tobruk come ad El Alamein o nelle steppe russe, trascorsero anni separati dalle proprie famiglie e dai propri affetti. I campi per prigionieri di guerra creati dagli alleati in Australia, in India, in Sudan, in Sud Africa, in Gran Bretagna, negli USA e in Russia, come quelli dell’Africa del nord liberata dalla presenza nazifascista (primavera 1943), costituiscono un’altra tappa di quella che sembra un’eterna odissea prima di rientrare a casa. Per molti, le vicende della prigionia durarono cinque, sei e più anni, con la morte sempre in agguato, una sorta di sospensione temporale della propria esistenza tutta incentrata sulla nostalgia e sul desiderio del ritorno.

I primi due volumi - “Il diradarsi dell’oscurità 1939-1941 (1.), 1942-1943 (2.)” - riguardano più propriamente la partecipazione dei trentini sui lontani fronti di guerra e nei campi di detenzione, spesso ancor più lontani. Si chiudono con il terzo anno di guerra, l’anno dei bombardamenti aerei alleati (2 settembre 1943) su Trento, dell’armistizio dell’8 settembre e dell’occupazione tedesca della provincia. L’inizio delle incursioni alleate scardina nella popolazione civile qualsiasi certezza, qualsiasi sensazione di trovarsi immune dinnanzi all’orrore. Di fronte alle bombe, l’individuo scopre di essere solo, abbandonato all’incognita di una morte casuale e terribile, catapultato in un’altra dimensione dove la guerra diventa una realtà totale. Si tratta di tenere “gli occhi volti al cielo” (Gino Pancheri) in attesa che suonino i primi allarmi e cadano le prime bombe “maligne”, in “un clima di non vivenza”. Perfida coincidenza del conflitto, i trentini conobbero il trauma dei bombardamenti quasi contemporaneamente alla dissoluzione dell’esercito e dell’unità dello Stato italiano, all’occupazione tedesca. L’8 settembre segnò uno spartiacque devastante per un’intera nazione. L’evolversi della situazione in una direzione inaspettata mutò drasticamente il senso della partecipazione al conflitto, innanzitutto per i soldati. Cefalonia, che vide coinvolti molti trentini in servizio nella Divisione Acqui, rappresentò certamente il punto di svolta. Abbandonati e lasciati praticamente a se stessi, la maggior parte dei trentini, in Italia, nei Balcani e in Francia, fu catturata e internata nei campi di concentramento nazisti. Chi non riuscì a fuggire alla vendetta tedesca al momento dell’armistizio, soffrì l’umiliazione della prigionia, in condizioni di vita al limite dell’esistenza, falcidiati dalle malattie, dai bombardamenti sulla Germania, da fucilazioni e impiccagioni sommarie (vedi i giustiziati di Hildesheim). Una tragedia nella tragedia.

Il terzo volume ha senz’altro il merito di ampliare il quadro dell’esperienza dei trentini nella seconda guerra mondiale, aprendo uno squarcio sulle opzioni di scelta e sui diversi destini individuali. Accanto ai trentini che abbracciarono la causa della Resistenza armata, all’estero come in Italia, compaiono coloro che decisero di tener fede all’alleanza arruolandosi nei reparti della RSI o entrarono, loro malgrado, nel CST. Gli episodi più salienti della Resistenza locale - eccidio del 28 giugno 1944 e malga Zonta dell’agosto successivo - ed i suoi più diversi protagonisti (religiosi, militari, antifascisti di lungo corso, donne, disertori ecc.) si alternano armonicamente al vissuto quotidiano dei civili che, sotto la minaccia aerea, tentavano di ritrovare una qualche normalità o almeno la pura sopravvivenza. I tedeschi come occupanti fanno la loro comparsa tra il secondo e il terzo volume. L’occupazione della provincia si attuò seguendo modalità e politiche differenti rispetto al territorio nazionale, dove l’uso terroristico della violenza fu più massiccio. Le operazioni di repressione antipartigiana furono dirette a colpire il movimento clandestino senza coinvolgere la popolazione civile.

In Trentino, non si sviluppò una vera e propria guerra ai civili e le autorità tedesche ricercarono sempre la collaborazione e la mediazione dell’élite dirigente locale (Adolfo de Bertolini). Il mantenimento della pace sociale rappresentava per entrambi un obbiettivo prioritario. Ciò nonostante, l’episodio legato alla fucilazione di Ettore Stenico dimostra che si poteva morire per un semplice furto. Furono i giorni conclusivi del conflitto, tra l’aprile e il maggio 1945, a mostrare anche ai trentini il vero volto dell’occupante. Stragi e singole uccisioni di civili, disertori (le “morti inutili”) e partigiani costellarono le vie della ritirata tedesca verso la Germania. La  conclusione della guerra evidenziava che il ritorno alla normalità e alla pace avrebbe rappresentato ancora per molti mesi una meta non raggiunta.