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Noi del confine

Foto dell’Archivio storico “Quei de San Bortol”

La strada dove abitavo da bambina, parallela al Rio Sale, era equidistante da due rioni della città: Bolghera e San Bartolomeo, e li divideva. Quartiere molto borghese il primo, operaio il secondo, dove l’unica licenza romantica era racchiusa nei nomi di alberi delle tre vie: Tigli, Olmi e Robinie. Era conosciuto anche per le palafitte e le americane - case popolari costruite con il piano Marshall - e definito Bronx, con il passar degli anni, per la concentrazione di problemi sociali mai del tutto risolti. Nella mia strada abitavano famiglie di professionisti e benestanti mescolate a famiglie d’impiegati e infermieri; per le prime la convivenza era spesso temporanea, giusto il tempo di terminare la costruzione della villa in Bolghera o nella prima collina.

Cominciai a uscire dal mio cortile per andare a scuola, alle elementari Fogazzaro, che raggruppava i bambini dei due rioni. Stare in classe era la cosa più bella del mio mondo, appartenevo a un gruppo di bambine tutte uguali, le differenze sociali nascoste da grembiule nero e fiocco colorato. Il primo giorno la mamma non mi accompagnò, il mio fratellino era nato da pochi mesi e comunque facevo la strada con il maggiore che andava in quarta. Finita la scuola, si giocava sempre nei pressi di casa, a tiro di voce dai propri genitori, la gran distanza tra la mia strada e i due rioni con lo smisurato metro dell’infanzia.

Iniziai ad avere sentore d’ingiustizia quando Luisa, la mia amichetta preferita, compagna di classe e di catechesi, che abitava nella mia stessa via, m’invitò alla sua festa di compleanno. Ero molto emozionata al pensiero della mia prima festa. Avevamo parlato per settimane dei giochi da fare e delle altre compagne invitate. Poi quella mattina a scuola, dispiaciuta, mi dice che non posso andare. “Ma perché?” chiedo. “La mia mamma non vuole... perché non puoi portarmi il regalo”. Ci rimasi malissimo, ero spesso a casa sua a fare i compiti e stavamo proprio bene insieme, Luisa era buona e simpatica. Però la sua mamma, austriaca, da un’altra stanza ogni tanto alzava la voce e le parlava a lungo in tedesco, con tono duro. Poco dopo Luisa mi diceva che era meglio andassi: il papà, dentista, stava tornando. Ma sulla porta la sua mamma mi salutava sorridente e qualche giorno dopo era lei a telefonarmi di andar da loro per fare i compiti con Luisa.

Avrei voluto raccontarlo ai miei genitori. Sentirmi rispondere: “Non sei tu a sbagliare, siamo noi a vergognarci della loro povertà di cuore”. Ma non dissi niente, perché allora nessun genitore era attento a queste cose, quello che ci succedeva era sempre colpa nostra e avrei rischiato un sonoro castigo. Senza l’aiuto di un adulto impiegai molto tempo a elaborare perché andassi bene per insegnare i compiti, ma non per partecipare alle feste. Innocente vittima dell’ipocrisia borghese da sorrisi di facciata e pugnalate alle spalle. Eppure bastava entrare nelle diverse case per cogliere il lusso e la povertà. O guardare l’unico cappotto sempre più corto e liso indossato da certe bambine. L’unico paio di scarpe sfondate che s’inzuppava di pioggia o neve e si asciugava nei piedi giorno dopo giorno.

Alle medie iniziai a sentirmi davvero a disagio: considerata troppi scalini giù da quelli della Bolghera, per giocare nei loro giardini recintati, partecipare alle loro feste, andare in vacanza nelle loro case in montagna. Troppi scalini su per quelli di San Bartolomeo, con i quali mi ero persa la vita in strada, l’amicizia e la complicità dell’esser ugualmente disagiati. Da adolescente il quartiere di San Bartolomeo divenne così malfamato da essere imbarazzante dire di risiedere in quella zona. E doveva sempre seguire la chiosa: via Chini è strada di confine, il Bronx comincia da lì in poi. Con gli anni Settanta fu soprattutto la droga a trovare terreno fertile fra molti che erano alle elementari con me e che, purtroppo, furono tra le prime vittime in città. Sicuramente entrò anche nelle belle case col recinto dei ricchi. Ma fece meno, molto meno rumore.