Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca

Casa dolce casa

Da rifugio a gabbia, da prigione a nido...

Della casa dove sono nata e vissuta fino ai quattro anni, ho pochissimi ricordi, ma sicuramente erano tempi felici, anche se abitavamo in due sole stanze: camera e cucina. Il gabinetto era un bugigattolo esterno in condivisione; per non uscire col buio si usavano i vasi da notte. C’era un gran terrazzo dove poter giocare, mio fratello ed io, con altri bambini. Il ricordo più dolce è papà che aspettavo sempre per addormentarmi; lui rientrava dal lavoro, mi prendeva in braccio, appoggiavo la testa sulla sua spalla, lui lentamente contava uno… due… al tre già dormivo. Sono certa di non essermi mai più sentita così: abbandonarmi sapendo di essere protetta.

La casa dove ho poi abitato fino ai vent’anni era un microcosmo, uno spaccato dell’Italia anni Sessanta. Tutti i papà delle dodici famiglie residenti erano colleghi di lavoro, dipendenti dell’allora Sanatorio di Mesiano. Le pareti sottili filtravano il vissuto quotidiano dei vicini, i litigi urlati che scoppiavano all’interno, le canzoni a squarciagola, le porte sbattute, le risate improvvise. Le mamme facevano spesso filò insieme, spettegolando su altre vicine che in negozio facevano segnare la spesa, o che chiedevano sempre qualcosa in prestito alle dirimpettaie - dal dado per il brodo alle due spaccatine - senza mai restituirli. Si facevano i conti in tasca a vicenda, perché gli stipendi erano quasi uguali e la capacità di gestire il poco denaro con oculatezza si misurava facilmente. Pagare a rate era considerato un allarme, se poi arrivavano le cambiali era una gran vergogna. La mamma si vanta ancora adesso di non aver mai fatto segnare una spesa, o pagato a rate o ricevuto una cambiale. Dicono che erano gli anni del boom economico, ma a casa mia, in cinque con solo papà che lavorava, la mamma doveva fare i salti mortali per arrivare a fine mese e mettere via quel qualcosa che non si sa mai …

La solidarietà sociale invece era esemplare: che fosse per badare ai figli della vicina o per far delle compere per un’altra ammalata. Quest’aspetto era molto rassicurante; nelle case di adesso non si sentirà gridare o cantare, ma spesso l’unico contatto umano con i vicini è buongiorno buonasera.

In quella casa dove papà una notte di ventiquattro anni fa è morto improvvisamente, i ricordi legati alla sua fisicità, all’eleganza dei lineamenti, al posto che occupava, al passo pacato, fanno ancora un gran male. Un dolore naturale e buono che non voglio passi o si diluisca con il tempo.

Le case dove ho abitato dopo che sono nati e cresciuti i miei cuccioli, sono luoghi diventati sacri nei miei ricordi. Il passare degli anni aumenta la nostalgia per quel tempo prezioso e perfetto che era la loro infanzia, così come coincide con il rimpianto/rimorso di non averla vissuta a tempo pieno. Solo quando i figli saranno cresciuti ci si renderà conto di aver perso il bello dell’essere madre. L’inadeguatezza di una giovane mamma piena di buoni propositi, ma che doveva conciliare troppe cose da sola, è venuta a galla con la loro adolescenza.

Sì, sto parlando delle adolescenze di oggi, quelle molto precoci e che durano, in compenso, fino ai trent’anni. Evviva. Sono momenti dove si passa in un colpo solo da mamma indispensabile a mamma superflua, senza nemmeno deglutire. Li definisco anni di piombo, dove mi sentivo prigioniera politica.

Un giorno ho scritto una lettera a ciascuno con il seguente proclama: "Salve, io sono tua madre. Mi pare corretto e doveroso informarti che secondo una scuola di pensiero contemporanea, molto diffusa e attendibile, il mio ruolo nella tua vita è destinato a essere centrale e devastante. Puoi tranquillamente attribuire a me la colpa del novanta per cento di tutti i tuoi guai, problemi, frustrazioni, sfighe e catastrofi. Per il restante dieci per cento prenditela con la globalizzazione".

Lella Costa mi era venuta in aiuto; sembrava l’avesse scritto per me! Una risata almeno l’abbiamo fatta.

La somma delle molte cose che non andavano più nel matrimonio, più quelle andate in crisi come madre, moltiplicate per la malattia che mi ha colpito e affondato, hanno trasformato la bella casa dove abitavamo in una gabbia dorata. Nella quale mi sentivo reclusa, ospite, ostaggio, palla al piede. Ho rifatto le valige, cambiato casa e cercato di recuperare il rapporto con i miei figli, senza più interferenze.

Scelta coraggiosa? Anche, ma non solo. Scelta obbligata, perché quando i sentimenti sono troppo feriti si possono riaggiustare solo con il tempo e la distanza. I primi tempi detestavo questa nuova casa - o meglio detestavo me stessa - e soffrivo come una bestia. Era solitudine, paura della malattia che peggiorava, nostalgia. Poi il tempo passa e magari non invano, si matura ancora, il dolore cristallizza e diventa saggezza.

Ora sento di essere arrivata finalmente a casa, perché "casa" è quella che ci rassomiglia. Un po’ alla volta siamo entrate in simbiosi e qui vorrei vivere il resto dei miei giorni. Una casa nido dove ho deposto delicatissime uova colorate a ricordo della mia fragilità. Una chiesetta di montagna dove entrare scalzi; un’estensione di quella che sono e che parla di me.

Adesso la gabbia è il mio corpo. Sono agli arresti domiciliari. I molteplici capi di imputazione sono i vari errori accumulati negli anni; ma dopo averci fatto il giro intorno, finalmente adesso il quadro è chiaro. La mia peggior nemica sono io. Non a caso soffro di una malattia autoimmune; vale a dire mi fagocito da sola. Potrebbe chiamarsi anche autolesionismo, se non fosse un termine troppo astratto.

Sono molte le case che abitano dentro di me; create con l’immaginazione. Quella dei balocchi non avuti, dell’adolescenza usata pochissimo, della giovinezza durata un soffio. La casa dei pensieri opposti, quando si vuole andare e restare nello stesso tempo, e dove è vietato avere un pensiero unico. Quella dei tempi supplementari dove si può ancora scegliere e si riaggiustano le cose venute male. La casa dove si realizzano i sogni della notte. Quella dove non ci sono confini e proprietà. Quella dell’ironia dove è lo specchio a farmi domande marzulliane. Casa fortezza a difesa delle donne, dove si decide chi far entrare. Quella dell’amore felice e ricambiato. Quella piena di barriere architettoniche perché sarebbe stupido applicare la legge 13 anche nei sogni.

Dedico questi miei appunti di viaggio a Walter, squisita persona che gli dèi ci hanno ingiustamente strappato.