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La lotteria dell’emigrazione

Il personale amministrativo che lavora nei consolati e nelle ambasciate italiane nel mondo è di una disarmante arroganza e impreparazione.

Francesco Bert

L’immaginario Godwin Ugochukwu descritto nell‘articolo qui a fianco è il simbolo della disastrata Nigeria, dove l’immensa ricchezza petrolifera non porta alcun beneficio a circa l‘80% della popolazione che vive con meno di due dollari al giorno. Questi milioni di poveri hanno in mente una sola cosa: andarsene. In America, in Europa, in Italia e lì lavorare, per sfuggire ad una vita di stenti. Sanno che per arrivare nei Paesi del benessere c’è bisogno del visto. Visto, visa, visum, visado è quasi una parola magica per ogni nigeriano. C’é un business enorme dietro ai visti qui a Lagos, neanche troppo nascosto. I touts, ovvero le persone che si offrono, dietro pagamento di cifre astronomiche, di prendere un appuntamento per l‘intervista, o magari addirittura di procurarti un visto falso, prolificano indisturbati fuori dai consolati. E fregano i vari Ugochukwu, ignari del processo regolare di domanda di visto.

Nella società nigeriana conti in base al numero di visti che possiedi, che collezioni dalle diverse ambasciate. E anche in consolato a Lagos, al momento dell‘intervista, il numero di visti che hai sul tuo passaporto influenza la decisione finale. Hai già viaggiato regolarmente? Un punto a tuo favore. Sei un new traveller? Iniziano i problemi. La prospettiva del diniego diventa più forte.

Allo sportello o nel ricevere le persone crediamo che quello che più valorizza il lavoro di un impiegato sia l’imparzialità. Visti precedenti o no, capacità di parlare correttamente l’inglese o meno, l’impiegato si deve attenere alle regole, deve applicare cioè la legge in vigore per lo Stato italiano.

Certo, le particolarità nigeriane le impari a conoscere velocemente. Sai che nella maggior parte dei casi una bella, giovane ragazza di Benin City che chiede di andare in Italia per turismo, magari invitata da un amico nigeriano residente in Italia, spesso e volentieri finisce su una strada, consapevolmente o meno. E allora si richiedono garanzie supplementari per concedere il visto. Sai anche, d‘altro canto, che un professore universitario invitato per una conferenza dalla F.A.O. non ha particolari problemi, e se manca qualche documento si può anche sorvolare.

Ma qui il problema è l’imparzialità di fondo. Troppo spesso il processo di domanda di visto è lasciato alla discrezionalità, allo stato d’animo quotidiano, talvolta alle vene di razzismo dell’intervistatore . Così alla fine ciò che conta, invece della fredda documentazione scritta, diventa l’impressione che l’applicant fa allo sportello. Il vestito, l’apparenza. Il dimostrare che in Italia, in Europa, ci resterà non più di 30 giorni, per poi ritornare in Nigeria. Evitare di essere classificato in quella categoria negativa definita "rischio migratorio", che implica il diniego del visto. .

Il Console Generale Maurizio Bungaro, capomissione a Lagos, è una persona illuminata che gira l‘Africa da più di trent’anni e ne conosce le persone, gli inganni e le tecniche. Ci ha fatto capire, a noi "giovani progressisti e un po’ buonisti", che il nigeriano medio va a nozze con il buonismo nostrano. Spesso subisce angherie, insulti, ritardi, inconvenienti, ma alla fine ottiene quello che vuole ottenere.

Com’è diversa, l‘Europa, ancora oggi. Da un lato c‘è il poliziotto italiano, burbero, che all’ufficio immigrazione applica una legge, la "Bossi-Fini", che minaccia sanzioni fino a 15.000 euro e 3 anni di carcere per chi invita un cittadino straniero in Italia e poi non si occupa di farlo tornare al Paese d‘origine. Ma nella pratica tutti sanno che ciò è inapplicabile, poiché nessuno è in grado di rintracciare il visa overstayer, una volta scaduto il visto.

Dall‘altro lato c’è il funzionario inglese che, documenti alla mano, segue alla lettera la procedura e si rapporta cortesemente con l’utente: sei in regola, tutto a posto. Non lo sei, non passi. Stili diversi, risultati diversi.

I nigeriani questo lo hanno capito, continua il console. E seguono le falle del sistema, in primo luogo tra i Paesi dell’area di Schengen. Ed ecco perché, alle porte del nostro consolato a Lagos, non si presentano ingegneri e uomini d‘affari, ma fasulli lavoratori domestici e ragazze a rischio prostituzione.

E poi ci sono i cittadini italiani, coloro per cui sono stati creati, originariamente, i consolati all‘estero. Ma che ormai rappresentano una netta minoranza dell’utenza, nell’era della globalizzazione e dell‘immigrazione internazionale. Ciò nonostante, i connazionali hanno ancora, agli occhi dei funzionari italiani del consolato, bisogno di essere protetti e tutelati in un territorio ostile. Hanno accessi e trattamento privilegiato. L’orgoglio di essere diversi rispetto alla "massa negra" là fuori, che preme alle porte. Rigurgiti di nazionalismo e il ritorno di un’italianità che in Italia rimangono ancora minoritari, per fortuna.

Il problema sta a monte. Nella necessità di riformulare politiche dell’immigrazione adattate al contesto attuale. Avendo ben presente che più chiusura non vuol dire necessariamente più sicurezza, né maggiore rispetto delle regole.

Ed essendo consapevoli che la globalizzazione, processo ineluttabile, ha bisogno di persone educate ad affrontarla. Diventa fondamentale quindi il ruolo della scuola nell’insegnare a conoscere l’altro, prima di evitarlo. La legge Amato- Ferrero non ha mai visto la luce, bocciata insieme al governo Prodi. Un invito, a Walter Veltroni, a non indietreggiare, e a mettere l’immigrazione al centro della campagna: la demagogia della chiusura delle frontiere porta forse voti, ma sono le politiche concrete, le leggi vigenti, che costituiscono lo specchio di un Paese.