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A proposito di una recensione / 2

Leonardo Cocciardi

Egregio direttore, lessi con molto interesse l’ultima pubblicazione del trentino Giorgio Jellici, "Nove Racconti" e, stimolato dalla recensione apparsa sull’ultimo numero di QT a cura di Ettore Paris, mi sembra doveroso esprimere alcune considerazioni. I "Nove Racconti" sono da leggersi tutto d’un fiato e poi, tenuti sul comodino, riletti centellinandoli per ricavarne da ogni riga, da ogni passo, un piacere melanconico, come a leggere gli autori romantici tedeschi nella loro anima, ed i veristi italiani nella prosa. Non è un libro da sistemare sulla libreria ma da tenere bene in vista, a portata di mano e leggerne una pagina, di tanto in tanto, come si conviene ad un buon Sherry d’annata che conferma con il tempo il suo valore e non tradisce mai.

 Per questo motivo la critica di Paris, che ho apprezzato nella prima parte, mi ha un po’ deluso nella seconda.

Appartengo a quell’ultima, fortunata, generazione che poté osservare come fossero i nostri paesi solo quaranta anni fa; ne ricordo le strade bianche ed innevate d’inverno, le pizolade coi slimperez e i strozec, il profumo del fieno e del letame ed i salti nel fieno dei tabiè, da monelli, al termine dell’adigö (ultimo fieno di settembre) con il contadino, non si sa quanto inconsapevole che, di tanto in tanto, esibiva la sua minacciosa presenza facendoci fuggire a gambe levate.

La mia famiglia era considerata benestante (chì del Garber, i siorèz), ma non viveva in modo molto difforme dal quelle dei miei compagni di scuola con i quali dividevamo le "prodezze" sopra accennate. Ricordo, certo, la "Elena dai pori" (rèchie) con un gozzo di tutto rispetto che ci spaventava, el Paolìn dai cegn (rèchie) preso in giro da noi piazaröi per il buffo "artificio a motore" con il quale si spostava e per la trasandatezza dei vestiti (un disadattato, si direbbe ora) e che però era un valente musicista, el Ceto (rèchie), beone del paese, che ne aveva per tutti, nessuno escluso e che ai carabinieri che bussavano alla sua porta intimandogli di aprire e minacciandolo con frasi del tenore "Apri alla forza pubblica...", ribatteva olimpico: "Embèn, ze le la forza publica, spenji !", el Carlùcio Garber, mio zio, che trascorreva le giornate macinando decine di chilometri a piedi per compiere la sua "missione" e cioè fare gli auguri di compleanno o di onomastico a tutti quelli del paese che, in cambio di un mazzolino di fiori mezzo appassito, raccolto sul bordo della strada, gli offrivano il latte con la torta o la spuma.

Mi sembra che fosse anche più che credibile l’esistenza di penose realtà familiari: forse al giorno d’oggi non ve ne sono? Con tutto il nostro benessere, di ciuchère e disadattati ne son piene le osterie e le piazze ma, almeno, sti egn erano persone riconoscibili, comunque inserite nel contesto paesano di cui facevano parte a pieno titolo, persone spesso - quasi sempre - non aliene da un certo spirito: ora sono solo alienati e...punto.

La questione che mi sento allora di sollevare è che dicendo: "una volta c’erano i poveri, col gozzo, ora non ci sono più", non si colga il fondo dei "Nove Racconti", e cioè lo spirito che li permea, mentre invece la chiosa del recensore è superficiale per non dire qualunquista, usando un termine che, immagino, faccia parte del suo bagaglio culturale.

E poi se dovessimo tenere il conto di quanti sono stati salvati dal gozzo dai benefici della società industriale impostasi dagli anni ’60 in poi e di quanti muoiono per tumori, incrementatisi all’ennesima potenza, non so proprio da che parte la bilancia possa pendere.

A ogni bon cont, mi sembra che certa sinistra non sia ancora capace di liberarsi dal mito della società industriale. Magari mi sbaglierò.