Zingari per sempre
Quando l’informazione discrimina e la parola divide
Undici dicembre 2008, Tg regionale del Trentino Alto Adige, edizione della notte, ultima notizia. Una giornalista legge un testo che suona pressappoco così: "Fermati dalla polizia alcuni nomadi residenti al campo di Trento che si aggiravano all’ex Zuffo con fare sospetto. Sono in corso accertamenti. I nomadi sono stati segnalati da un maresciallo dei carabinieri in licenza".
Una bella storia, davvero: ci sono tutti gli elementi del racconto morale, con il buono (il carabiniere non in servizio che segnala il pericolo), i cattivi (naturalmente gli zingari) e il lieto fine: i nomadi sono stati fermati.
Una favoletta nella quale ci possiamo tutti immedesimare: noi naturalmente ci metteremo tra i buoni; dall’altra parte c’è il caos, il pericolo, c’è il nemico per eccellenza dell’ordine e della tranquillità: gli zingari.
Sì, va bene, bella storiella, ma dov’è la notizia? Questi "nomadi" che cosa hanno fatto, oltre ad essere zingari e dunque per definizione sospetti, per essere stati fermati? Niente, semplicemente "si aggiravano presso l’area ex Zuffo con fare sospetto", e questo – pare – già basta e avanza.
Ma fino a prova contraria "aggirarsi" non è ancora un delitto. Allora il sospetto è che la giornalista Rai (debitamente informata da una "velina" delle forze dell’ordine) condivida l’idea – comune anche tra una larga fetta di popolazione trentina – che se si è nomadi "aggirarsi" preluda necessariamente a qualche tipo di pericoloso crimine e che questo meriti di per sé un passaggio all’interno del Tg regionale.
Complimenti alla Rai di Trento per aver preso due piccioni con una fava: aver dato una "non notizia", mostrando di fare male il proprio lavoro e nello stesso tempo aver indicato una volta di più in un gruppo sociale intero (i nomadi del campo di Trento) i colpevoli di un "non" delitto. Un ulteriore scivolamento culturale e di civiltà: "almeno" prima si mettevano all’indice gli "zingari" quando avevano fatto qualcosa davvero.
Ma, ancora più sottilmente, questa non notizia in odore di discriminazione, veicola un modo di pensare inquietante, proprio nella misura in cui esso è del tutto inconscio: al mondo ci siamo noi e ci sono loro.
Loro non sono persone come noi, non fanno parte della comunità, non guardano il Tg3, non lavorano, non mangiano, non fanno l’amore. Loro, semplicemente fanno gli zingari, e lo faranno per sempre. Nominare, in questo come in molti altri casi, significa rinchiudere gli individui in un gruppo che presume identità statiche, altre e inconciliabili con la nostra, rendendo di fatto impossibile l’incontro.
Nel caso degli "zingari", termine privo di significato (ci sono i Rom, rumeni, balcanici, italiani, ortodossi, islamici; i Sinti, gli Jenische, ecc.) e per di più carico di inquietanti connotazioni che lo rendono simile alla parola "negro", questa identificazione in un gruppo da parte della società maggioritaria ha avuto conseguenze pesanti. I "nomadi" (il 90% dei Rom e dei Sinti in Italia sono ormai stanziali…) sono stati costretti, a partire dalla metà degli anni ’70, a fermarsi nei "campi", strumenti di controllo e riproduzione del disagio sociale e della discriminazione.
Così, oggi, un bambino che nasce "zingaro" in un campo alla periferia, non può invitare i compagni di scuola a casa sua a fare merenda; difficilmente arriverà oltre la terza media; quasi sicuramente resterà disoccupato.
Ma ci sono modi diversi per "nominare" l’altro: oltre a quello evidentemente discriminatorio, ce n’è uno più politicamente corretto. Ne feci esperienza qualche anno fa, aspettando con alcuni amici Sinti di parlare con l’assessore alle politiche sociali di Trento. Durante l’attesa, una sua collaboratrice si sedette con noi e – rivolgendosi ad un sinto di 60 anni (già bisnonno) – guardandolo teneramente come si farebbe con un bambino, gli disse: "Che bella pelle che avete voi", riferendosi al suo colorito scuro. Nell’imbarazzo generale che seguì ebbi modo di riflettere sulla violenza simbolica veicolata dalla retorica delle culture "diverse". Un modo come un altro di dire, ancora, noi e loro.
"Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo cui gli accade di appartenere", scriveva Primo Levi. ?