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Storie di famiglia

Stupro legale (negli Usa e in Italia!) e disconoscimento di paternità attraverso test del DNA

Stupro legale. Sembra impossibile ma in alcune democrazie occidentali è lecito che il marito ottenga il congiungimento con la moglie (il cosiddetto debito coniugale) con la forza o con minacce. In alcuni Stati degli USA è ammesso dalla legge il "marital rape exemption" (esenzione dello stupro maritale), che rende legale lo stupro all’interno della coppia sposata. Il diritto del marito si fonda su una tesi aberrante: col matrimonio la moglie avrebbe prestato un consenso a priori rispetto a tutti gli atti sessuali futuri pretesi dal marito ("Diritto e giustizia", n° 25 del 25 giugno 2005). Del resto, anche in Italia è stato così, nonostante la Costituzione, fino al 1976. Prima, per secoli, lo stupro all’interno della coppia sposata era ritenuto lecito. Celebri giuristi, fra cui il cattolico Carnelutti, collocavano fra i diritti reali (come quello di proprietà) il diritto del marito sulla moglie, chiamato "ius in corpus" o "ius in corpore". Quando qualche moglie si ribellava e sporgeva denuncia, il marito veniva assolto, o tutt’al più condannato per violenza privata o per percosse, non per violenza carnale. La svolta avvenne con la sentenza n° 12857 del 1976 con cui la Cassazione per la prima volta affermò che "commette il delitto di violenza carnale il coniuge che costringa con violenza o minaccia l’altro coniuge a congiunzione carnale". La migliore giurisprudenza si adeguò, ma rimase la resistenza di alcuni Tribunali e di alcune Corti di Appello, tanto che la Cassazione ha dovuto occuparsene anche recentemente.

Il caso è il seguente: un marito aveva costretto la moglie, con percosse e maltrattamenti, alla congiunzione carnale. La donna, che aveva partorito il giorno prima e aveva ancora punti di sutura, si era ribellata, ma poi per far cessare le percosse aveva ceduto mantenendo durante il coito un comportamento assolutamente passivo. Il Tribunale di Palermo aveva condannato l’uomo per violenza sessuale. La Corte di Appello invece aveva ribaltato il verdetto assolvendo l’imputato, valorizzando il fatto che durante il rapporto la donna era rimasta inerte. La Cassazione ha annullato l’assoluzione stabilendo che nessun "dissenso inerte" può sostituire il consenso che ciascuno deve poter esprimere liberamente. In altre parole la sentenza ha stabilito che "in tema di libertà sessuale non è necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo del rapporto, essendo sufficiente che si manifesti nel momento iniziale".

Legittimità o verità? Il Codice Civile all’art. 235 stabilisce le condizioni in cui si può esercitare il disconoscimento di paternità, tra cui l’adulterio della moglie. L’art. 244 fissa i termini: un anno, per il marito, dal giorno in cui è nato il figlio, dal giorno in cui ne ha avuto notizia, o dal giorno in cui ha saputo dell’adulterio. Ci si domanda se l’esigenza di verità non sia troppo sacrificata rispetto all’esigenza di certezza in termini di legittimità. Il problema è tornato all’attenzione in seguito a una vicenda conclusasi in Cassazione con sentenza 25-2-2005 (vedi "Guida al Diritto", in Sole 24 ore, n° 12 del 2005, con commento di Sabina Anna Rita Galluzzo).

La vicenda inizia quando una moglie, in stato di gravidanza, confessa al marito di aver avuto rapporti extra coniugali. Il marito attende la nascita della figlia e poi richiede il test del DNA. Gli esami confermano che la bimba non è sua. A questo punto esercita l’azione di disconoscimento di paternità. La domanda è però respinta dal Tribunale, dalla Corte di Appello e infine dalla Cassazione perché il ricorso era stato proposto fuori tempo massimo, cioè oltre un anno dalla nascita della figlia.

E’ giusta questa sentenza o no? Ho delle forti perplessità. E’ vero che il marito aveva avuto la confessione dell’ adulterio prima del parto, ma i coniugi non erano certi della paternità: poteva anche essere del marito dato che i loro rapporti sessuali erano continuati. Il marito aveva fatto bene ad aspettare la nascita della bimba e a chiedere solo dopo la prova del DNA. Aveva però aspettato troppo e il termine di un anno era scaduto. Ma la certezza egli l’aveva raggiunta solo con il DNA, che gli aveva dato ragione. Perché dunque i giudici gli avevano dato torto? L’art. 235 dispone che il marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con le sue. E allora? Secondo la Galluzzo un buon centro di analisi dà i risultati in un periodo molto breve: dai 7 ai 15 giorni. E’ vero, ma mi sembra lecito riflettere prima di prendere una decisione così grave, e inoltre il diritto alla prova negativa stabilito dall’art 235 n° 3 viene vanificato. Concludendo, la Cassazione ha ritenuto di privilegiare il "favor legimitatis" (certezza di stato civile) rispetto al "favor veritatis" (verità del fatto), tenendo fermo il termine di un anno dalla nascita per l’azione di disconoscimento. La mia perplessità nasce dal fatto che in certi casi i mariti vengono a sapere anche con anni di ritardo dell’adulterio della moglie e possono sempre esperire l’azione di disconoscimento entro un anno da quando hanno avuto la notizia. E’ proprio infondata la sensazione di una disparità di trattamento? Forse sarebbe opportuno stabilire un termine anche breve (6 mesi) per la prova del DNA dal giorno della nascita o della notizia, e far decorrere l’anno dal test del DNA.