Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 22, 23 dicembre 2005 Monitor

King Kong

Peter Jackson riesce a trasfondere anche qui (ma non completamente) l'intreccio fantasy/effetti speciali così fortunato nel "Signore degli anelli"; e riesce pure a portare tematiche nuove e intriganti rispetto all'edizione del '33. Ma purtroppo, senza svilupparle appieno.

Nella prima parte del film si fa in tempo ad annoiarsi. Questa vecchia storia di una troupe cinematografica che parte all’avventura per un’isola sconosciuta alle carte non sembra riguardarci poi molto. Si passa quell’oretta confrontando le scelte di Peter Jackson con quelle del "King Kong" originale del 1933 per la regia del duo Cooper e Schoedsack. Il racconto di Peter Jackson è decisamente più disteso e meno sincopato: in totale 187 minuti contro i 102 della versione del 1933. Non tutti questi minuti in più sono però ben spesi. Molti momenti melodrammatici, inseriti per dar modo agli attori di sviluppare i propri caratteri, stiracchiano un film, che, si sa, vive tutto nell’attesa della comparsa in scena dello scimmione chiamato Kong.

La pellicola, quindi, decolla solo nella seconda parte, quando la nave approda sull’Isola del Teschio. Le suggestive scene della lotta in mare con le rocce lanciano una parte centrale piena di effettacci che rimane, a conti fatti, la migliore del film.

Il "King Kong" di Peter Jackson, infatti, ha forza quando riesce a richiamare – come un marchio di fabbrica, con una coerenza autoriale sulla carta difficilissima – le atmosfere con cui il regista neozelandese era riuscito a riprodurre la Terra di Mezzo. La gestione registica del sovrapporsi di effetti speciali, comparse mostruose, insetti, dinosauri, è notevole quasi quanto quella del "Signore degli anelli", anche se qui l’accumulazione di presenze ostili produce un effetto caricaturale di tipo rabelaisiano e anche se l’elaborata integrazione tra attori, paesaggi e creature del computer non riesce a raggiungere gli stessi altissimi livelli della precedente trilogia. Dà una sgradevole impressione di videogioco, ad esempio, la scena più impattante del film, la fuga, che rischia di travolgere il regista e i suoi compagni d’avventura, dei brontosauri inseguiti dai T-Rex in un canyon.

A sembrare usciti dalle atmosfere del "Signore degli anelli" sono soprattutto gli indigeni nativi della Skull Island, che temono Kong e gli sacrificano le vergini. Hanno un lato paurosamente soprannaturale e sono spietati, lontani da qualsiasi concezione antropologica di politically correct. E’ quando entrano in scena, veloci, coesi, feroci, sfogando una sanguinosa violenza sui cinematografari newyorchesi, che si crea per qualche attimo un vortice capace davvero di simulare la potenza delle narrazioni tolkieniane.

Tra indigeni e avventurieri c’è una radicale differenza nel modo di rapportarsi al Male simbolizzato da Kong. Gli indigeni fuggono da un terrore che non riescono a dominare; si sentono, e sono, inferiori alla potenza della natura; accettano la loro debolezza e arrivano al massimo a un accordo col gorilla, che li lascia tranquilli in cambio di qualche vergine ogni tanto. Il momento forse più bello del film è quando percepiamo negli occhi rivoltati all’indietro degli indigeni una trance di terrore di fronte all’arrivo di Kong.

Gli uomini di cinema, invece, vanno in cerca del Male per filmarlo e rivenderlo. Lo sguardo di Peter Jackson sul suo omologo, il regista-avventuriero, è del tutto negativo. Ci descrive la sua caccia di immagini come una cosa assolutamente perversa. Se questo soggetto concepito nel 1933, oltre che intrattenere lo spettatore del 2005, ha anche qualcosa di rilevante da dirgli, se ha un "messaggio", come si diceva una volta, questo sta proprio nella denuncia del ruolo cannibalistico, non etico, cinico e intrusivo dei media. La crudeltà della società dello spettacolo appare infatti evidente: la troupe mediale arriva sul luogo dell’azione, non sa niente del contesto in cui è, riprende, sfrutta, porta via e spettacolarizza, senza riguardo alcuno per la vita – anche se è solo quella di una scimmia gigante dalle perfide apparenze.

Peccato che Jackson non si sia spinto più in là in questa direzione. L’allusione non è approfondita, come rimangono appena accennate diverse altre suggestioni del film. Peter Jackson non riesce a sfruttare pienamente nemmeno la sua intuizione migliore, lo sguardo sulla tribù indigena, che scompare troppo presto dalla trama. E vanno persi anche altri buoni spunti, come i ripetuti riferimenti a "Cuore di tenebra", mai sviluppati, che finiscono quindi per risultare banali.

E’ comunque solo in questa parte centrale del film che si finisce per dimenticare la versione del ’33, catturati dalla tensione del racconto. Quando si rientra a New York la storia si reincanala nel risaputo, anche dal punto di vista visivo, nonostante gli effetti speciali. Ci si scopre di nuovo a cercare le variazioni inserite da Peter Jackson dentro la trama di Cooper e Schoedsack. La differenza più ovvia è nella diversa percezione dello scimmione. Nel film del ’33 Kong voleva proprio fare paura. Non si leggeva tra le righe, dall’inizio, un alone di animalismo o di ambientalismo: allora la natura, nelle parvenze del mostruoso gorilla, poteva ancora sembrare indomabile. Oggi è ovvio che la caduta dello scimmione dall’Empire State Building non produce sollievo ma compassione. Se questo è ancora un sentimento che siamo capaci di provare nella nostra spettacolare giungla d’asfalto.

Parole chiave:

Articoli attinenti

In altri numeri:
Il Signore degli Anelli - Il ritorno del Re

Commenti (0)

Nessun commento.

Scrivi un commento

L'indirizzo e-mail non sarà pubblicato. Gli utenti registrati non devono inserire altre verifiche e possono modificare il proprio commento dopo averlo inserito.

Riporta il codice di 5 lettere minuscole scritto nell'immagine. Puoi generare un nuovo codice cliccando qui .

Attenzione: Questotrentino si riserva la facoltà di cancellare commenti inopportuni.