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“Vietato obbedire”

Concetto Vecchio, Vietato obbedire. Bur, 2005, pp.255, 8,60. Il sessantotto nella facoltà di Sociologia a Trento.

E’ un masso che rotola libero, cieco, sballottato qua e là, verso il precipizio. A suggerire questa lettura è la copertina, una sorta di "istruzioni per l’uso" di un ordigno misterioso - la facoltà di Sociologia - scaraventato a Trento in regalo senza essere desiderato. Le testimonianze dei protagonisti di quei dieci anni, dal 1962 al 1971, ci danno - è scritto - "il ritratto della stagione che anticipa e prefigura la ferocia della lotta armata".

Che sia un avvicinarsi all’abisso del terrorismo è un’interpretazione diffusa, ma non per questo è la più vera. Quei dieci anni sono tante cose insieme.

Nell’ultima pagina, Concetto Vecchio, giovane giornalista al Trentino, a epilogo di quegli anni, cita tre fatti. Renato Curcio e Margherita Cagol, a Milano, certo, scelgono la lotta armata. Ma le università italiane si aprono, per legge, ai diplomati di tutte le scuole, e una coppia, a Modena, può registrare per prima in Italia il proprio divorzio. Come convivono le Brigate rosse con le riforme, civili e sociali, della modernizzazione?

Allora, cosa ha visto Trento, "Dio mio", in quel periodo di fuoco? Nel 1971 le campane tornano a suonare, senza contestatori fra i piedi: "I ragazzi che volevano fare la rivoluzione raccolgono le loro cose e sgomberano il campo: hanno perso". E’ stata una "parentesi".

Eppure, per tutti, "nulla sarà mai più come prima: contestare i padri e l’autorità non è stato inutile". Come se, diremmo, a Trento, prima che altrove, si fosse recitato lo spettacolo dell’"autobiografia della nazione italiana" (e non solo).

Rimangono in tensione fra loro le diverse interpretazioni del Sessantotto, come di altri eventi della storia d’Italia. Noi siamo abituati da sempre a discutere se il fascismo è "parentesi" (l’invasione degli Hyksos in un territorio sano, è la tesi di Benedetto Croce, il liberale), o "rivelazione" (l’esito di malattie di lunga durata, è la tesi di un "azionista" come Piero Gobetti). O chissà, se è, secondo i marxisti, "controrivoluzione borghese". Ci torneremo.

Si può piantare una facoltà di sociologia fra le montagne?" - obietta Francesco Alberoni a Bruno Kessler, il presidente democristiano della Provincia, che lo vuole a Trento, nel ’68, a dirigerla, per risollevarla dalle difficoltà. La storia, come sempre, è anintenzionale: il progetto politico è di ricavarne i tecnici funzionali allo sviluppo capitalistico. Al quale serve l’approccio positivistico delle scienze sociali: individuare il problema, formulare l’ipotesi, verifica o falsificazione. L’idealismo, allora dominante, che opera "distinzioni" all’infinito, è inservibile. Per Croce, infatti, la sociologia è una "scienza inferma".

Sarà Karl S. Rehberg, venuto a Trento da Dresda a festeggiare nel 2002 il 40°anniversario dell’università, a spiegare perché le facoltà di sociologia nascono, inizialmente, in città periferiche, in Italia, in Germania, e altrove. La sociologia nasce come "contropotere" rispetto alla società reale, è la critica delle disuguaglianze, dello sfruttamento, dell’alienazione. Nell’età della globalizzazione - disse - deve accogliere i nuovi problemi, deve tornare a far "arrabbiare".

E Concetto Vecchio racconta una storia di arrabbiature dei giovani contro l’autorità. "L’obbedienza non è più una virtù", scrive don Lorenzo Milani. Gli studenti disobbediscono ai professori, i figli ai padri, gli operai ai padroni, i fedeli alla chiesa, e infine, dentro il movimento, le donne (le femministe) agli uomini. E tutti insieme gli oppressi si ribellano al "sistema" del capitalismo militare, fascista, imperiale, in Italia e nel mondo. L’"università critica" è il momento più alto, con i corsi autogestiti, della disobbedienza. A Trento accorrono, in folla, giovani da tutta Italia: duecentoventisei nel 1962, duemilaottocento nel 1968.

Le pagine sono fitte di nomi e di fatti. Di vita e di morte. Di amori e di abbandoni. Di carezze e di violenze. Di assemblee e di attentati. Di successi e di fallimenti. A scuola e in fabbrica. In casa e sulla strada. In chiesa e nei palazzi della politica.

E’ una generazione "fortunata" quella del ’68. Il clima che ci viene riconsegnato dalle testimonianze è di un’età in cui i due piani del tempo biografico e del tempo collettivo si intersecano, non rimangono separati. La partecipazione a un movimento permette a quei giovani di elaborare mentalmente una concezione del tempo storico. Cioè la consapevolezza che un mondo esiste prima di noi, e che ne esisterà uno dopo, a trascendere la vita individuale di ognuno. E il mondo futuro può essere costruito diverso. Che è la coscienza storica.

Talvolta i programmi di studio di quegli anni, concordati, (quasi) imposti dagli studenti dopo lotte (e occupazioni) anche lunghe, sono accusati di essere schiacciati sull’attualità. Nel convegno del 2002 è questa l’accusa di Paolo Prodi e di Guido Baglioni. Certo urgeva il bisogno di sapere "perché" si studia. E si rispondeva: per esercitare "un’azione rivoluzionaria" sul mondo.

Forse solo un’altra generazione, quella della "Resistenza", fu altrettanto fortunata, visse un’analoga effervescenza collettiva. E con la resistenza il sessantotto fece i conti in modo originale. Il problema non è tematizzato nel libro, se non per accenni, ma ad essa, per via familiare, sono legati alcuni esponenti di spicco del movimento studentesco trentino. La somiglianza fra il disobbedire esistenziale dei partigiani e quello degli studenti, fra la "comunità liminare" degli uni e degli altri, viene scoperta in tutto il suo fascino. Uno studente cattolico paragona il "tradimento" del concilio a quello della resistenza.

Alla memoria egemone è però mossa una critica interna: rispetto alla dimensione patriottica, unitaria, di liberazione nazionale, si privilegia la dimensione di classe, all’antifascismo "tricolore" viene contrapposto l’antifascismo "rosso". "La Resistenza è rossa, non democristiana", diverrà lo slogan gridato il 25 aprile nelle manifestazioni separate degli anni ‘70. Il fascismo è interpretato come controrivoluzione antiproletaria, e a fascismo oppressivo è ridotto il potere "borghese" dello Stato repubblicano.

Sarà uno storico come Guido Quazza a elaborare in forma organica la tesi della Resistenza "tradita" o "incompiuta", la continuità quindi fra la rivolta partigiana e la rivolta studentesca, nello sforzo di comprendere, per rispondere alla violenza "istituzionalizzata", anche il ricorso a forme di violenza "illegale". Fascismo diviene una categoria estesa, illimitata. L’antifascismo, simmetrico, è maneggiato come una clava, minacciosa. Da "esistenziale" si trasforma in "militante". E, dopo la strage di piazza Fontana, l’abbattimento dello Stato, ormai divenuto fascista, esige per alcuni il ricorso alla lotta armata.

Le aporie di Quido Quazza hanno origine dal suo rifiuto di ammettere che il regime fascista ha avuto consenso, non è stato "una chiesa senza fedeli". La Costituzione, che a quello storico pare un tradimento della resistenza, (il patto del 1948 sarebbe un inganno, in quanto frutto dell’unità fra i moderati e una sinistra cedevole), ne è in realtà il risultato più pieno.Il Sessantotto, nei suoi eccessi rischiosi, ha il merito di rivitalizzare il dibattito. Nella resistenza, qualche anno dopo, con franchezza maggiore, sarà riconosciuto, dalle ricerche di Claudio Pavone, anche l’aspetto di "guerra civile".

Ma i ‘70 non sono solo anni di piombo. Non fu fatta la rivoluzione, perché non è possibile, in occidente, nei tempi moderni. "E poi, non sapevamo parlare alla gente, questa è la verità", riconosce oggi, una donna del movimento femminista di allora.

Il divorzio, e l’aborto, (ma anche il nuovo diritto di famiglia, lo statuto dei lavoratori, la liberalizzazione degli accessi all’università), dopo che la società è maturata dal basso, vengono riconosciuti con leggi del parlamento. Poi difese nei referendum con i quali forze integraliste (cattoliche) cercano di abrogarle. L’onda lunga del ’68, di partecipazione alla politica, in quelle conquiste è determinante.

E’ vero, anche in quelle occasioni fu attivata una "mobilitazione antifascista", contro il "fascismo di Stato" della Democrazia cristiana. Era un fraintendimento. Adriano Sofri lo ha riconosciuto proprio qualche giorno fa, in videoconferenza a Trento, parlando sul referendum per la fecondazione assistita. Adesso che di quest’ultima prova conosciamo il fallimento, sulle cause, vicine e lontane, del dove abbiamo sbagliato, ognuno deve interrogarsi.

Anche sulle energie che abbiamo perso per strada, dobbiamo interrogarci, figure che non ci lasciano in pace. Dei cento nomi citati nel libro, voglio ricordare solo quello della nostra (di Trento) Mara Cagol, che nel 1969 scrive alla mamma: "Tutto ciò che è possibile fare per cambiare questo sistema, è dovere farlo, perché questo io credo sia il senso profondo della nostra vita. La vita è una cosa molto importante per spenderla male o buttarla via in inutili chiacchiere".

I miei studenti, con il passare degli anni, si sentirono sempre più estranei ai loro fratelli maggiori del ’68. Anzi, "erano strumentalizzati dalla politica", un giorno cominciarono a dire. E così, mutati, i più giovani si diplomarono, si iscrissero anche all’università. Certo, quei loro antenati avevano sbagliato, in alcune scelte. Ma avevano capito che la storia è dotata di uno sprazzo di senso. Almeno.

E’ questo il messaggio del libro. Brillante, leggibile: frasi brevi, parole non troppo lunghe. "Il 27 aprile 1966, all’università di Roma, c’è scappato il morto". Che nel raccontare una tragedia, la prima, l’assassinio di Paolo Rossi, uno studente che desiderava diventare architetto, nel registro linguistico abbia una caduta, a Concetto Vecchio lo perdoniamo.