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“Ho spezzato il mio fucile”

Alberto Trevisan, Ho spezzato il mio fucile. Edizioni Dehoniane, Bologna, 2005, pp.144, 10,50.

Titolo efficace e persuasivo per un libro interessante e coinvolgente. So bene che è la traduzione in parole del distintivo degli obiettori di coscienza antimilitaristi e pacifisti. Ma come Trevisan scrive a pag. 88, "il fucile spezzato non è una semplice spilla di metallo. E’ il simbolo della pace e della nonviolenza. Deve solo ricordarci che la grande tragedia della guerra e della violenza si può superare se ognuno di noi incomincia a spezzare il proprio fucile, a rendere inutile la propria arma".

Il titolo mi ha fatto venire in mente quello che ho imparato durante i miei studi: non è quello della prostituta il mestiere più antico del mondo, ma quello del soldato. La guerra viene prima della fornicazione prezzolata, e ne è una delle cause, forse la principale. Quando le tribù dei cacciatori-raccoglitori inventarono la guerra, i maschi si trovarono subito avvantaggiati per la maggiore robustezza del loro apparato scheletrico e muscolare. Ne approfittarono per imporre la loro supremazia alla società, relegando le donne in una posizione subordinata.

Spezzare il fucile significa rompere l’anello più forte che regge ancora la società, che è maschilista e guerriera. Significa aprire un nuovo orizzonte, formare una nuova cultura, quella della pace e della uguaglianza femminile.

Il conflitto è connaturato all’uomo ed è fattore di progresso. Lo sapeva già l’antica cultura greca: pòlemos è il padre di tutte le cose. Ma ci sono due modi per risolvere i conflitti: quello distruttivo della guerra, e quello civile della mediazione, della composizione degli interessi contrapposti, della soluzione negoziata. L’umanità non potrà sopravvivere se non imboccherà questa seconda soluzione.

Alberto Trevisan ha fatto ormai 40 anni fa una scelta radicale, pagando di persona, consapevole che solo la radicalità non violenta con un percorso lungo, tormentato, faticoso, fatto soprattutto di sofferenza e di testimonianza in prima persona raggiunge l’obbiettivo. Forte di questa convinzione, egli scrive: "Ho attraversato più di mezza Italia con i ferri ai polsi".

Non racconterò la storia di questa lotta per non privarvi del piacere di leggere il libro. Quando io conobbi Alberto con i primi obbiettori (Matteo Soccio, Adriano Scapin e altri) per il tramite dell’avvocato Paolo Berti, accettai subito di difenderli con entusiasmo. Non perché condividessi le loro idee. In quel momento avevo un’altra posizione, lo dico lealmente. Avevo combattuto, avevo partecipato alla Resistenza contro i nazisti, ero stato catturato come Alberto Trevisan (ma dalle SS tedesche), ero stato rinchiuso in carcere, processato e condannato. Ero convinto, e lo sono tuttora, che per difendere o riacquistare la libertà sia legittimo e giusto anche ricorrere alle armi. Le ragioni che mi convinsero a difendere gli obbiettori furono sostanzialmente due: vedevo che un diritto fondamentale veniva brutalmente disconosciuto e punito come reato; la mia coscienza non poteva accettarlo; e consideravo l’ordinamento giuridico militare una barbarie, che disonorava l’Italia. Non vedevo l’ora di combatterlo. Era allora una "giustizia di capi", che era pronta a riconoscere le circostanze attenuanti per aver agito per "motivi di particolare valore morale e sociale" ai terroristi altoatesini (che usavano la dinamite), ma non agli obiettori di coscienza antimilitaristi e pacifisti.

Un ingranaggio repressivo che aveva portato il Tribunale militare di Padova a infliggere a un soldatino, che stava per essere congedato, la pena di un anno, 4 mesi e un giorno di reclusione (da scontare a Gaeta) per avere rivolto ad un ufficiale il ronzio della zanzara! Condannato niente meno che per insubordinazione! "Se avesse fatto una pernacchia - scrisse un giornale dell’epoca - l’avrebbero fucilato!"

Noi tutti abbiamo ricevuto un grande insegnamento da Alberto Trevisan e dagli obiettori, e dobbiamo loro gratitudine.

Io non credo che la generazione degli obiettori stia tramontando. Si apre ora una nuova stagione, una nuova frontiera di obiezione. Non basta più rifiutarsi di vestire la divisa militare, ma occorre rifiutare l’arruolamento in caso di chiamata alle armi per una nuova guerra.

La teoria della guerra preventiva ha sciolto il guinzaglio ai conflitti bellici che divampano in ogni parte del mondo. Potremmo rimanere coinvolti ben più pesantemente che in Iraq oggi. Dobbiamo opporre un netto rifiuto, pacifico ma determinato, rimanendo passivi, inerti e inermi. Dovranno trascinarci a forza e anche allora resteremo inerti. I fucili spezzati non spareranno. Rimarremo fedeli alla nostra Costituzione che ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Coloro che hanno seminato per questa nuova frontiera di pace, sono stati gli obiettori di coscienza degli anni ‘60 e ‘70. Da oggi in avanti c’è un nuovo lungo e difficile cammino. Dobbiamo trasformare nella cultura e nella politica l’antica massima "se vuoi la pace prepara la guerra" nel suo contrario: se non vuoi la guerra prepara la pace. Alberto Trevisan e i suoi amici obiettori saranno certo in prima fila.