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QT n. 3, 12 febbraio 2005 Monitor

“Alcesti”, la recita dell’esistenza

La rilettura della tragedia di Euripide ad opera di Giovanni Raboni: un'operazione colta, fatta di una scenografia minimale e un testo decodificabile solo cogliendone allusioni e reminiscenze. Uno spettacolo difficile ma poetico ed inquietante.

L’"Alcesti o la recita dell’esilio" di Giovanni Raboni, andato in scena il 3 febbraio all’Auditorium Melotti di Rovereto, è l’ultima rielaborazione del mito euripideo della donna che si sacrifica in luogo del marito. Il mito, che affonda le radici in un antichissimo motivo folclorico condiviso da culture diverse e in tempi molto distanti, fu trasformato in testo drammaturgico da Euripide, che lo portò in scena per la prima volta nel teatro di Dioniso ad Atene nel 438 a.C. Il mito annovera una lunga fila d’importanti riscritture lungo il corso dei secoli, che costituisce un altro capitolo della storia dell’Alcesti, documentando contestualmente la centralità delle sue tematiche: le declinazioni dell’amore e della morte. Tanto per rimanere nel Novecento, basti ricordare le rielaborazioni di Savinio e della Yourcenar.

Giovanni Raboni.

Lo spettacolo vive di un minimalismo scenico che occulta qualsiasi legame iconografico con l’antico dramma, sorreggendosi unicamente sui dialoghi, dato che la messinscena è povera, a tratti persino insignificante nella voluta riduzione ad un grado zero del suo meccanismo; pertanto lo spettatore è obbligato ad un attento ascolto dei dialoghi e soprattutto delle risonanze simboliche di questi ultimi. Gli attori, tutti e quattro compresi nella loro parte, risultano negletti dalla scelta registica di valorizzare solo i versi liberi raboniani, perciò appaiono destituiti della loro specificità individuale e ridotti a modelli funzionali di comunicazione teatrale. I gesti, misurati e parchi, sono poco evocativi e i registri recitativi uniformi. Dietro alle parole del testo, va detto chiaramente, batte il cuore antico della vicenda euripidea, che è la sostanza vera della modernità sfoggiata dal poeta milanese; in mancanza della prima, neanche una colta operazione come questa avrebbe avuto una ragion d’essere.

Raboni riattualizza il mito trasportandolo ai tempi contemporanei, anche se la contemporaneità non è storicamente definibile se non dalla violenza di un nuovo ordine che "incombe sulle nostre teste", di un potere che "sta ammassando... i presunti avversari del nuovo ordine negli stadi e nei velodromi". Quest’ordine - la nascita di un vecchio/nuovo totalitarismo - spinge i tre protagonisti: Stefano-Ferete, padre di Simone-Admeto, Sara-Alcesti moglie di quest’ultimo, a rifugiarsi in un teatro per sfuggire ad una probabile cattura da parte dei miliziani. Qui i tre protagonisti vengono condotti da un Custode o Spedizioniere (o un Caronte), personaggio ambiguo che si muove fra il ruolo di salvatore e quello di messaggero di morte, imponendo la scelta cruciale del sacrificio, tra chi si salverà e chi no. Entro questo spazio, i due uomini litigano rinfacciandosi colpe e mancanze, mentre la donna vive una sua personale epifania, riconoscendo in quel teatro il luogo in cui ha recitato per la prima volta, interpretando il ruolo dell’ancella di Alcesti. Da quel momento Sara, con uno scarto concettuale e drammaturgico, che costituisce un’autentica agnizione, abbraccia il ruolo di novella Alcesti. Quest’illuminazione costituisce un tratto di grande originalità del testo raboniano, cambiando il corso stesso della vicenda. Una delle caratteristiche del testo è che si può decodificare - come in questo caso - solo a patto che si colgano le sottili allusioni, le corrispondenze di senso e le reminiscenze tra gli episodi antichi e i presenti. Sara, per evitare il sacrificio di qualcuno tra di loro, propone di nascondersi insieme nel teatro, giudicato un "esilio", per il tempo necessario, mentre il vecchio Stefano è irresoluto nella volontà di continuare a vivere: "Io ci tengo/ ancora, ci tengo forse di più, / ci tengo forsennatamente/ a quel po’ d’albe e di tramonti/ che, chissà, potrei ancora vedere...".

Lo stratagemma raboniamo dell’ambientazione in teatro, rispetto alla reggia euripidea, è la chiave drammaturgica del testo perchè lo carica di una valenza metateatrale, innescando uno scambio di funzioni tra vita e morte. Dove infatti la finzione assume i tratti della più autentica verità? Qual è il luogo dove tutto è possibile?

Se Sara è pronta a riconoscere che la vera vita è quella che scorre a teatro, la sua precedente era la morte, mentre quella che è in atto è la vera vita, compreso il suo sacrificio, che è consumato fuori dallo spazio scenico. Sara-Alcesti si allontana silenziosa, mentre agli attoniti parenti non rimarrà, dopo le prime resistenze, che accettare la via della salvezza, offesi dalla loro stessa grettezza. Lo stesso motivo dello scambio di funzioni è presente nel testo antico. L’Alcesti euripidea conosce da anni la propria sorte - a differenza di quella raboniana, tanto che avrà due figli da Admeto, ma vivrà il tempo rimanente in bilico tra essere e non essere, perché quando vive è già destinata alla morte, e quando morrà, sarà più viva che mai per il generoso gesto compiuto. Tuttavia i due finali, pure accomunati da un alone di ambiguità, divergono fortemente; mentre in Euripide il sacrificio dell’eroina è riscattato da Eracle, che dopo aver vinto una lotta su Thanatos, la riporta in vita, la Sara-Alcesti riapparirà velata e muta, ma non sarà riconosciuta dai due congiunti, con cui viaggierà sullo stesso camion che li condurrà alla nave della salvezza.

La fascinazione per l’ambiguità della sorte dell’eroina è forte, ma lo è ancora di più per la riflessione sul linguaggio teatrale aperta dal testo raboniano e che costituisce il senso stesso dell’operazione poetica, che confonde i piani del reale, la vita di Sara consegnata all’inesistenza, e dell’irreale, la recita e il sacrificio più veri del reale.

Resta inquietante l’intepretazione più estensiva che il testo suggerisce, ossia che la vita stessa sia una recita dell’esilio, o dell’esistenza che dir si voglia.