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QT n. 22, 24 dicembre 2004 Servizi

Il secondo libro di Talitha Kumi

Israele/Palestina: il difficile tentativo di un dialogo attraverso la redazione di un testo di storia comune ai due popoli.

Due lati di finestre illuminano la sala arredata sommariamente con un grande cerchio di tavoli e sedie. Fuori il verde del bosco circonda Talitha Kumi, la scuola della chiesa luterana (lingue d’insegnamento arabo e tedesco e inglese) il cui nome biblico significa "Ragazza, alzati!", che sorge su una collina vicina a Beit Jala, Betlemme, Territorio palestinese.

I professori Dan Bar-On (ebreo) e Sami Adwan (palestinese), coordinatori del progetto.

Una quindicina di persone di diversa età e sesso siedono e parlano con calma. Le parole sono scelte con cura, ma chi ascolta viene colpito dalla franchezza e serenità con cui vengono dette cose molto scomode per l’interlocutore. Gli altri ascoltano in silenzio attento. La lingua è l’inglese. Sono gli storici e gli insegnanti israeliani e palestinesi del progetto del PRIME, l’Istituto per la pace in Medio Oriente, che discutono i testi del secondo libro di storia comune, palestinese-israeliano.

Li coordinano due professori, Dan Bar-On e Sami Adwan, ebreo e docente di psicologia all’università di Be’ersheva il primo, e palestinese docente di letteratura a Betlemme il secondo, entrambi premi Langer del 2001.

Chi scrive era andata a conoscerli, nei primi mesi dall’inizio della seconda Intifada, e il clima era pauroso, fra attentati terroristici in Israele, sparatorie ai check point e rappresaglie a colpi di cannone che colpivano anche questa scuola, oasi di pace e di tenacia nel diffondere il sapere, e le case di persone spesso per nulla implicate nel feroce conflitto.

Nel primo libro le due narrazioni storiche, dopo lunghe discussioni, sono apparse in un unico testo, ma separate. In entrambi le edizioni originali, in ebreo e arabo, in mezzo c’è uno spazio vuoto. Il bianco è colmato solo dalla speranza che un giorno ci sia un testo comune. Ne esistono versioni in diverse altre lingue. In Italia ne sono state vendute 11.000 copie, un successo editoriale dell’editrice "Una città" con il titolo "La storia dell’altro". In Palestina e Israele molti insegnanti di storia lo adottano coraggiosamente come materiale didattico, nonostante i divieti, fra cui ultimo quello ufficiale del ministero dell’educazione israeliano.

Un progetto, sempre del PRIME, finanziato da una ONG tedesca, prevede che 60 studenti ebrei e altrettanti palestinesi interroghino genitori e nonni sulla base della storia del libro, e che alla fine, oltre alla raccolta di materiale, si organizzi un incontro fra di loro.

Nella riunione, che avviene di venerdì e sabato, gli storici sono suddivisi in sottogruppi. Ogni gruppo riferisce dei periodi esaminati, che sono questa volta gli anni ‘50, ‘70 e ‘90. Il testo viene elaborato da un gruppo mononazionale, viene poi consegnato tradotto in arabo o rispettivamente in ebraico, e sottoposto all’esame degli altri. Infine la discussione riprende in inglese in un gruppo binazionale. In conclusione si fa una riunione plenaria in cui le valutazioni sono aperte a tutti.

Sara Moar, un’insegnante di storia israeliana, riferisce degli anni ’90 di cui ha letto la versione palestinese, e guardando negli occhi i partner palestinesi dice con fermezza: non posso portare a scuola il vostro testo, invece di parlare della vostra società, voi elencate una serie di episodi di cui siete stati vittime. Uno storico di Betlemme, palestinese, le risponde che per il suo popolo quelli sono gli episodi significativi e il resto è secondario. Lei controbatte che le sembra inaccettabile che l’assassinio di Rabin non sia neppure menzionato. "Non pretendiamo che vi interessiate ai nostri politici - dice - ma dovete rendervi conto che la sua morte violenta ha avuto come conseguenza la fine del processo di pace. Quindi si tratta di un avvenimento importante anche per voi".

Eyal Naveh, che insegna storia a Tel Aviv conclude che si dovrà cambiare l’introduzione, prendendo atto che non si può fare di più e che anche in questo secondo libro non si faranno passi avanti. Un giovane docente che vive in un kibbutz protesta che l’importante è rendere curiosi i propri allievi sulla storia dell’altro, far loro attraversare la breccia nel muro dell’autoreferenzialità storica del proprio gruppo nazionale, e che quindi non è necessario cambiare l’introduzione. Dan Bar-On interviene dicendo che spesso non sono i fatti clamorosi quelli determinanti, ma le emozioni che provocano e come queste in seguito si cristallizzano e danno origine a cambiamenti nella società.

Bisogna cercare, dice, di abbassare i toni, di trovare un modo meno forte di riportare i punti dolenti della storia. Sami concorda e invita a considerare che la situazione attuale influenza in modo decisivo le prospettive con cui si vedono gli avvenimenti storici. "Si deve imparare a convivere sentendosi parte di un processo"

A tavola, Sachar, una giovane docente palestinese, mi spiega che per il suo popolo la morte di Arafat non è stata una tragedia: "Lo stimiamo molto, ci ha fatto diventare un popolo, per noi è un simbolo, ma se fosse morto due anni prima, sarebbe stato meglio". In modo più o meno diplomatico sento diversi palestinesi ripetere questo concetto. Fra i candidati alle prossime elezioni presidenziali del 9 gennaio (sono dieci, fra cui nessuna donna, poiché dell’unica è stata respinta la candidatura, arrivata oltre i termini, essendo la candidata rimasta bloccata dai check point israeliani come spiega lei stessa al Jerusalem Post), Abu Mazen è il favorito: "Ha la nostra stima, ma non è un simbolo, quindi potremo dirgli, quando sbaglia, che sta sbagliando, ed è questo di cui abbiamo bisogno. Bargouti è un militare. Forse Sharon lo libererà, per mettere in difficoltà il popolo palestinese di fronte a due candidati dello stesso partito. Ma non credo che verrà votato: la soluzione della nostra questione non passa attraverso il conflitto militare" - conclude la mia interlocutrice. Più tardi Sami Adwan, più cauto nel suo giudizio verso Bargouti, dà però un giudizio analogo.

Soshana Steinberg ha seguito fin dal primo giorno questo progetto, e ha curato la redazione del libro. Dopo la riunione, dice di provare una grande emozione nel vedere che nel gruppo in alcuni anni di lavoro comune è nato un profondo affetto e relazioni che coinvolgono le famiglie. "Sono nate amicizie profonde fra persone che all’inizio non si sarebbero mai parlate. I primi tempi sono stati una prova del fuoco. Dopo i primi attentati suicidi ci sono state le occupazioni di Jenin, con molti morti e tante violenze. Dall’altra c’erano gli attentati. Così prima di ogni incontro ci raccontavamo le nostre drammatiche vicende".

Donne lungo il muro.

Questo spiega la franchezza che viene usata durante le discussioni e che sorprende l’osservatore esterno. Alla conclusione dei due giorni di incontro, oltre a darsi due successivi appuntamenti a distanza di circa tre mesi l’uno dall’altro, per l’ultima rilettura dei testi definitivi, si prendono accordi per riunioni più ristrette. Infine Sara (che sembra Liza Minnelli) tira fuori da un sacco dei regali: sono per i genitori di bambini nati di recente e per la nonna di uno degli storici che ha compiuto gli anni.

La sera, al ritorno, passiamo vicino al muro, alto otto metri, che chiude la cittadina, la cui economia è stata distrutta dalla seconda Intifada. L’80% degli abitanti è disoccupato, la miseria è nera e le prospettive oscure. Dall’alto del minareto della moschea antistante (dove l’imam e il muezzin ci hanno permesso in via straordinaria di salire) la chiesa della Natività appare bellissima e misteriosa, ma vuota di pellegrini che, spaventati da un pericolo inesistente, non si recano più a Betlemme. Il giorno dopo, al check point verso Gerusalemme i controlli sono severi, molto di più che a Ramallah, dove pochissimi sono i visitatori della tomba di Arafat nella sede della Autorità Palestinese.

Gerusalemme ribolle di fanatismi, le distanze fra i gruppi religiosi (religioni e sette) sono aumentate di molto in pochi anni. In Israele-Palestina c’è relativamente meno violenza rispetto a qualche tempo fa, ma la tensione è fortissima e c’è un clima di attesa per ciò che accadrà a una società che sottolineando al massimo le differenze richiede una dose di tolleranza straordinaria.

E c’è attesa per ciò che faranno i palestinesi dopo la morte del loro capo.

I palestinesi, dopo tre anni di durissima repressione, con quel muro che li stringe e li schiaccia, sono ottimisti. "Probabilmente pensano che niente potrà essere peggio di ora. Escono da un periodo durissimo e sperano che le elezioni dimostreranno che il loro popolo è in grado di andare verso la democrazia" - dice Carla B., una cooperatrice italiana che da molti anni vive a Gerusalemme.

Ramallah: la tomba di Arafat.

Molti israeliani invece sono pessimisti, soprattutto i più aperti, quelli che hanno lottato contro l’evoluzione autoritaria e nazionalista del loro stato. La povertà aumenta e lo stesso costo del muro, milioni di quintali di cemento, pesa sulle condizioni di vita della popolazione ebraica. Ancora non è passata la paura per i giovani che di sera frequentano i locali notturni, facile obiettivo degli attentati suicidi. Davanti a ogni locale, una guardia controlla chi entra e perquisisce le borse. Dentro sembra di essere a New York, luci soffuse, atmosfera rilassata, giovani alla moda, musica recente, drink internazionali.

Una ragazza lavora qualche sera come cameriera in un locale della zona russa a nord di New Gate. Ha i nonni milanesi. Sembra come i nostri ragazzi, ma è reduce da tre anni di servizio militare, durante i quali non è potuta andare in Italia a trovare i parenti. Il suo sguardo è serio, quando parla del periodo trascorso. Il servizio nei territori colpisce profondamente la gioventù, e si estende il fenomeno, pur minoritario, di coloro che si rifiutano di servire nell’esercito all’interno dei territori.

Il nuovo parroco cattolico di Gerusalemme, noto in Italia per essere coautore del libro sull’ "Assedio alla Natività di Betlemme" insieme a Marc Innaro e Giuseppe Buonavolontà, guarda dalla finestra che domina la sua città, santa per tutte le religioni.

Sono felice, dice, di essere parroco della prima parrocchia del mondo.

Davanti al microfono si dichiara ottimista: avremo qualche anno di calma. Poi, a cena, si tradisce: non avremo mai pace in questa terra. "In Italia - chiede accorato - fate sapere che abbiamo bisogno che vengano i pellegrini. Da soli non ce la faremo a fare la pace, ma se non c’è la pace a Gerusalemme non c’è pace in tutto il mondo".