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Oltre il giardino

Politica culturale: due inquietudini, una diagnosi e un tentativo di terapia.

I nquietudine 1. "Perché le minoranze trentine non producono talenti narrativi o artistici? Offro solo una delle possibili risposte: perché sono sazie di denaro pubblico...".

E’ il clou di un articolo esemplare che Gigi Zoppello ha proposto sull’Adige di giovedì 9 settembre. Tralascio il contesto e punto sulla tesi centrale: "La sopravvivenza della cultura minoritaria si garantisce non con il ricorso al passato, ma con un lungo passo verso il futuro". Da ciò consegue naturale e spietata la domanda: "I milioni di euro che il Trentino spende per le minoranze sono spesi bene? Vanno in direzione del futuro? Sanno creare contenuti, emozioni, idee?".

In una prosa logica e sobria Zoppello va dritto al cuore del problema che da parecchi anni turba la politica culturale del Trentino. L’abbondanza di soldi che gentilmente lo Stato seguita ad elargirci (ma quanto durerà?) serve davvero ad innalzare le nostre capacità di creare arte e… cultura tout-court oppure "è soprattutto una faccenda di potere"?

Inquietudine 2. "Sono stanco e frustrato per la poca attenzione e il poco appoggio che Trento dimostra verso uno dei pochi concorsi per direttori d’orchestra d’Italia, nonché uno dei più importanti a livello internazionale."

Il maestro Maurizio Dini Ciacci.

Le parole tristemente ipotimiche sono di Maurizio Dini Ciacci (valente direttore d’orchestra e pianista, nonché direttore artistico della manifestazione in questione), pronunciate venerdì 10 settembre alla conferenza stampa per l’apertura della fase finale del concorso Pedrotti. Il discorso precipita verso l’abisso: "Le mie dimissioni sono già sul tavolo di chi di dovere… " eccetera eccetera.

T entativo di diagnosi. Le esternazioni esprimono tutte e due un malessere verso chi dovrebbe coordinare davvero la politica culturale sul territorio. Zoppello si può permettere il distacco razionale del giornalista, Dini Ciacci è ovviamente più coinvolto in quanto artista. Paradossalmente il primo teme che sia l’eccesso di soldi pubblici a rallentare il passo della nostra capacità creativa, mentre il secondo lamenta la mancanza di risorse. Chi ha ragione?

In realtà le due inquietudini trovano origine nella stessa patologia. Il morbo risiede negli enti locali: in quegli enti che strigliati dall’arroganza dei politici inseguono progetti effimeri ma con ritorni di immagine e di utile garantiti a breve; in quegli enti che, soffocati dai burocrati, non sanno concepire qualcosa al di là delle formule di promozione più collaudate e stantie; in quegli enti che, resi ciechi dalla logica dell’hic et nunc, cioè del "meglio un uovo oggi che una gallina domani", non sanno o non vogliono progettare, non sanno o non vogliono vedere gli effetti dei loro interventi in una prospettiva temporale e geografica. Troppe volte si spendono soldi, e tanti, per finanziare operazioni le cui eco si disperdono prima della stretta di Borghetto, a sud, e quella di San Michele, a nord. Possibile che si sperperino bellamente decine, centinaia di milioni delle vecchie lire in spettacoli e iniziative che spesso nascono e muoiono a Trento, perché non si riescono ad esportare da nessuna parte, perché nessuno le vuole, a Verona come a Innsbruck, perché sono brutte, datate, provinciali?

La terapia d’urto. L’arte, la narrativa, le discipline umane cosiddette "creative" in realtà creano gran poco. I veri artisti interpretano ciò che esiste già, però aggiungendo sempre un qualcosa. Ma quel "qualcosa" è decisivo. Perciò nell’arte, se non si può prescindere dal passato, non si può nemmeno rinunciare a guardare avanti.

Bisognerebbe che le istituzioni mostrassero più sensibilità verso quei progetti culturali che hanno la capacità di librarsi in volo oltre il profilo della Paganella. Perché la comunicazione è il lievito della cultura e il fine dell’arte. Il nostro Trentino invece ha un po’ la configurazione di una serra che tiene al riparo frutti e ortaggi dagli eventi esterni. Di concime ce n’è forse troppo, anche se spesso non ci si preoccupa di distribuirlo con criterio. Le piante crescono a bizzeffe, grazie a una pratica eutrofica, protezionistica, scarsamente mirata e differenziata. Rispetto alle piante che stanno fuori quelle in serra non rischiano i danni della grandine, del vento o della neve: certo che se poi fate la prova dell’assaggio la roba che viene dall’orto ha un altro profumo, quel qualcosa in più…

E allora si frantumino le vetrate mefitiche della serra e si cominci a gestire la politica culturale in modo più intelligente, consapevole e "colto". Occorrono politici con la vista lunga, burocrati preparati e dirigenti intraprendenti che non temano il confronto con l’esterno e che sappiano individuare quali piante mostrano le maggiori potenzialità di crescere rigogliose e di generare i frutti migliori, per annaffiarle e concimarle a seconda delle loro specifiche esigenze. Come farebbe un giardiniere esperto e coscienzioso.

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