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Terapia con (fiori di) Bach

Riprendendo a suonare il grande Johann Sebastian.

Confesso che mi sono un po’ rotto le scatole delle recensioni. Ne ho scritte parecchie, animato da sincera volontà di favorire soprattutto giovani artisti locali in gamba. Non ho mai considerato la mia attività sul giornale un do ut des, non ho mai preteso (né ricevuto) contropartite, nemmeno simboliche, tipo bozza de vin o scatola di Mon Chéri… Però a cotanta generosità c’è un limite. Cazzarola, ogni tanto capita anche a me di esibirmi a Trento e dintorni in veste di musico: da quando scrivo su QT non ho mai avuto il piacere di essere citato a mia volta da colleghi della stampa o di intravvedere tra il pubblico qualcuno dei miei recensiti.

Porca miseria, sono davvero così musicalmente insignificante? Per non cadere nellegrinfie della depressione approfitto del mio brandello di spazio mediatico per sperimentare su me stesso una nuova terapia per il recupero dell’autostima.

Curerò la SIA (Sindrome di Insignificanza Acquisita) parlando di Bach: di fronte a lui ci troviamo accomunati in tanti, musicisti recensiti o no, a galleggiare come canederli in un brodo di tragica trascurabilità. Che soddisfazione! Mal comune, mezzo gaudio. Ma io godo per intero a parlare di Bach perché, anche tra i musicisti più significanti, resta comunque il più grande.

Ho ripreso da poco a suonare Bach, dopo parecchi anni. Rileggerlo ora, nella maturità, è stato un po’ come riscoprirlo.

La riscoperta non ha incrinato quello che già sapevo di lui: un genio della polifonia, un ardito esploratore delle tonalità in avventure cromatiche quasi impossibili, un creatore di brani di ispirazione possente, mistica, vorrei dire metafisica per la tensione a modelli così distanti dalla realtà sperimentale dell’epoca... Tutte robe che stanno già scritte sui manuali. Provo a mettere a fuoco altri aspetti del suo stile che ho rilevato e che non troverebbero certo spazio tra le analisi ortodosse. Per una volta i puristi siano tolleranti, è Natale.

Osservazione 1, dell’estasi. Ogni brano di Bach è così
intimamente coerente che conserva dall’inizio alla fine un’atmosfera omogenea e intensa. Ascoltare una sua fuga è accettare di entrare in un mondo di suoni regolato da leggi che condizionano le nostre percezioni; è come immergersi in un sogno; come vivere in un ologramma composto da geometrie che intersecandosi formano immagini tridimensionali in continua mutazione… La musica di Bach è perciò straordinariamente evocativa e per questo impiegata spesso anche nel cinema. Per esempio "Accattone" di Pasolini è tutto commentato dalla Passione secondo Matteo.

Osservazione 2, della motocicletta. Il cuore che pompa in ogni brano di Bach ricorda quei vecchi Ducati, fieri e potenti, che al regime minimo emettevano uno scoppio al secondo: pom-pom-pom facevano. Poi davi gas e loro: ta-ta-ta come una mitraglia senza perdere un colpo.

In Bach il Ducatone sta costantemente in moto, a volte scandito dal basso, altre volte semplicemente sottinteso, ma è sempre lì sotto che rumina, che trasmette vita e vigore. E tu senti lo stantuffo del pistone che ti sale nella pancia e mentre vai (stavolta senza casco) ti fai lusingare dalle arie superiori che ti accarezzano i capelli con sincopi e contrattempi e come sirene ti inebriano e ti invitano a godere. Bisogna arrivare al Jazz di Lennie Tristano, Monk, Mingus… per ritrovare tessiture ritmiche di pari efficacia.

Osservazione 3, dell’inafferrabilità. I temi di Bach si combinano tra loro per creare situazioni in permanente metamorfosi: poliedriche, sfaccettate, sfumate, sfuggenti alle categorie, amletiche, che non affermano ma si interrogano, che non si fermano ma ti danzano davanti, mentre in te cresce il desiderio di afferrarle per quel bastardo istinto che ci spinge a bramare le cose belle che non si possono toccare.

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